«Yaish Assad!», lunga vita ad Assad. «America-out-out, Syria-will-stay-free!», «God, Syria and Bashar!». Quel sorriso sgangherato del capofamiglia che biascica i suoi slogan, quell’allegria rumorosamente ostentata delle donne assiepate nei sedili posteriori, quella disponibilità dissimulata dietro una trattenuta cordialità che subito si traduce nella fretta di sottrarsi a ogni possibile domanda non fanno che rafforzare il nostro sospetto: che cioè la lunga carovana di automobili che dalla Siria sfigurata dalla guerra civile preme per entrare in Libano non deve trarre in inganno. Perché i diecimila siriani che ogni giorno si affacciano a piedi, in auto, con ogni mezzo di fortuna ai posti di frontiera di Masnaa nella Bekaa, ad Arida nel nord, a Abboudieh, si dividono in due categorie: quelli che davvero hanno la possibilità di fuggire dalla guerra e dalla rovina, e quelli che davanti a sé non hanno nulla se non la cattività libanese e un’incerta prospettiva di vita. I primi – che intonano striduli spavaldi inni al rais di Damasco nel timore che qualche spia li denunci e dichiarano che sono in Libano per turismo – raggiungeranno Beirut, la Giordania, gli aeroporti, Cipro, qualche parente che vive all’estero e per loro ricomincerà una vita lontano da un Paese in fiamme. I secondi, assai più numerosi, recano nei volti i segni di una tragedia e il trauma incancellabile di una violenza che non ha risparmiato nessuno. Gli stessi segni, gli stessi volti di quelli che il confine lo attraversano a piedi con una valigia sulle spalle, un trolley, una sporta di vestiti. E sulle intenzioni dei quali non può esservi alcun dubbio. Seguiamo la carovana, perché fin da subito ci aspettano delle sorprese. A cominciare dal fatto che in Libano non esiste un luogo organizzato in cui i rifugiati possano ricoverarsi, se escludiamo i campi profughi palestinesi, come Nah al-Bahred, vicino a Tripoli. «Proviamo a dargli dei consigli, delle indicazioni – dice Omar al-Luwaiss, direttore di un’associazione caritatevole del Qatar – ma in realtà sono come dei bambini ciechi, oltrepassano il confine e non sanno dove andare...». L’Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, ne ha censiti oltre settecentomila, ed altri centonovemila sono in attesa di essere registrati, ma complessivamente, tra Giordania, Turchia, Iraq e Libano, superano abbondantemente i due milioni. Altri 4 milioni sono gli sfollati interni alla Siria. «Probabilmente i rifugiati siriani che hanno passato la frontiera libanese sono molti di più – ammette la rappresentante dell’organizzazione in Libano, Ninette Kelly – e temo che entro la fine dell’anno supereranno il milione». Quasi metà sono ragazzi, tre quarti dei quali hanno meno di 11 anni. E ormai un libanese su quattro è un rifugiato siriano. E qui comincia una brutta faccenda che con la solidarietà e gli aiuti umanitari ha pochissimo a che fare, ed è seguendo pazientemente le tracce dei tanti sventurati che arrivano in prossimità dei centri urbani che se ne coglie appieno l’obbrobrio. Fatoush ha 19 anni, quattro fratelli, una madre vedova. Viene dalla periferia di Damasco «la cintura della povertà», come la chiama lui. «A Beirut abbiamo trovato casa. O meglio, una stanza, dove abitiamo tutti e sei. Il padrone all’inizio chiedeva 150 dollari al mese, poi 250, ora ne vuole 300, altrimenti ci sfratta, dice che la casa perde di valore se la affitta ai siriani, ma insiste che lui è tenero di cuore. Il che – dice Fatoush – non è del tutto vero: ai nuovi arrivati ha chiesto 500 dollari al mese per sette persone in una stanza più piccola della nostra». Anche i generi alimentari da un po’ costano qualcosa in più, e questo indispettisce i libanesi. «I siriani i soldi li hanno – malignano – ma esitano tirarli fuori». Forse. Ma a vedere quelle donne in nero accovacciate sotto il sole spietato nelle vie di Hamra con un paio di bimbi piccoli in grembo e tre pacchetti di sigarette da vendere non si direbbe. Quando farà buio raggiungeranno un vecchio garage, un negozio dismesso, un rifugio di fortuna dove dovranno condividere lo spazio con altri sventurati. E con scarsissime possibilità di trovare un lavoro che consenta loro di sopravvivere. Gli aiuti non bastano: «Quei 3 miliardi di dollari che l’Acnur ha a disposizione possono solo fronteggiare la possibilità di un collasso», spiegano alla Croce Rossa Libanese. In conto a Bashar al-Assad, quale che sia la sua sorte, va comunque messo un disastro umanitario senza precedenti che nessuna ritorsione militare potrà mai sanare. Scende la sera sul Libano impaurito e sul milione di anime errabonde senza più patria. Non sappiamo – per nostra ignoranza – se vi sia un Giuseppe Verdi siriano che abbia mai composto un “Va’ pensiero” che essi possano bisbigliarsi nel cuore prima di chiudere gli occhi. Dei tanti poeti siriaci, uno però – Muhammad al-Maghut – ci piace citare. Scrive: «Dite alla mia piccola nazione, feroce come una tigre, che alzo la mano come uno studente che chiede il permesso di uscire o morire».