giovedì 13 marzo 2014
​REPORTAGE Nella capitale l'eco di Sebastopoli. Putin invia gli aiuti ai russofoni scortati dai "Lupi nella notte". di Giorgio Ferrari | DIRETTA TWITTER
APPELLO Il vescovo di Odessa-Simferopoli: «Fermate Putin»
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Altolà dei G7 sulla Crimea
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«Veda di impararla presto questa parola: Ya sdaus». Vuole dire: «Mi arrendo». In russo, non in ucraino. Le servirà presto...». Con tutta la buona volontà non riusciamo a considerare Leontin Krishenko un ottimista. Ma qualche ragione questo libraio con bottega a due passi da Maidan («Stavano per appiccarle il fuoco due settimane fa, molti libri sono bruciati») effettivamente ce l’ha. Basta aggirarsi per la piazza epicentro della rivolta ucraina e lo spettacolo è desolante. È vero, il despota Janukovich se n’è andato, Obama riceve il governo provvisorio, la Ue promette aiuti, i sette grandi progettano sanzioni e rappresaglie politiche contro Putin, ma su tutto sembra predominare un sentimento di ineluttabile rassegnazione, di «vidstavka», come dicono qui, a Kiev, la capitale lontana mille chilometri (non solo in senso geografico) dalla Crimea ormai perduta, dove i giovani di Sebastopoli danzano al ritmo di quel rock che era inviso alla nomenklatura sovietica come un’arma subdola del capitalismo e oggi invece – per uno dei tanti paradossi della Storia – diventa la colonna sonora della speranza di farsi riabbracciare dalla grande madre russa, la speranza di dimenticare il greve principato del satrapo Janukovich, la spocchia di Kiev che guardava alla Crimea come una impresentabile dependance della culla della civiltà slava. Si danza e si spera a Sinferopoli, a Sebastopoli, a Yalta, aspettando che scocchi l’ora suprema e la Crimea torni ad essere russa. E pazienza se per le strade sfilano i famigerati “Lupi della notte”, manipoli di Hell’s Angels in sella alle loro Harley Davidson che scortano i camion con gli aiuti alimentari e logistici mandati da Mosca: Putin li ama senza riserve, i russofoni di Crimea si adeguano: un giorno forse impareranno a temerli e da angeli si faranno scherani di un potere intollerante e impermeabile alla democrazia. Ma oggi è troppo presto, la Crimea vola alta, non c’è tempo per i rimpianti.A Kiev è tutto diverso. «Putin finirà per prendersi anche Odessa, Donetsk, le provincie d’Oriente», tuona una donna dal palco allestito a Maidan. Il rischio esiste. L’uomo forte del Cremlino campeggia su un gigantesco stendardo con gli stessi baffetti di Adolf Hitler. La bulimia di conquista del Führer, l’inefficace politica di “appeasement” dopo l’Anschluss e la presa dei sudeti è ancora salda memoria collettiva. «Se qualcuno spera che Putin si fermi è solo un illuso», spiega uno dei tanti in coda davanti a una tazza di brodo nello sgangherato presidio di Maidan. Ma la musica cambia se ci spostiamo qualche centinaio di metri più in là, sotto l’Hotel Dnipro, sede confiscata dai duri e puri del Praviy Sektor (letteralmente Settore Destro), il fronte nazionalista di cui è leader indiscusso Dmitry Yarosh, che ha annunciato di candidarsi alla presidenza alle prossime elezioni. «Nessuno ci toglierà un palmo di terra – dicono pressoché in coro una trentina di miliziani gonfi di rabbia e di anabolizzanti – né Putin né nessun altro». Yarosh dichiara di avere a disposizione almeno quattromilacinquecento volontari in armi. Folle orgoglio ucraino di fronte ai carri da guerra dell’Armata Rossa. Scende la sera. L’ultimo sole accarezza in un barbaglio accecante le morbide forme delle bellissime cupole dorate che punteggiano le tante chiese della città. Stridule cornacchie cantano impossibili melodie. Comincia a spirare un vento sottile, gelido, inarrestabile. Viene dalla Siberia, attraversa il grande nulla della steppa e va a spegnersi proprio in Crimea, sulla riviera in festa.
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