«E già morendo Eurïalo cadea, di sangue asperso le belle membra, e rovesciato il collo, qual reciso dal vomero languisce purpureo fiore, o di rugiada pregno papavero ch’a terra il capo inchina...». Khaled ha 22 anni, è figlio unico, studia diritto agrario all’Università di Bengasi-Gheriudis. Samir di anni ne ha 19, ha tre sorelle, fa il saldatore e sul suo iPhone taroccato scorrono delle immagini da brivido: una corsa su una motocicletta con il tachimetro che sfiora i 260 orari. I due sorridono complici. «Ce n’è uno ancora meglio – dice Khaled –, guarda bene...». Sul cellulare appare una Honda impennata che fila sull’autostrada che porta da Bengasi ad Ajdabiya a 160 all’ora. «Meglio della roulette russa, no?», dice Samir. Una radio sputacchia un rap ipnotico che conclude ogni emistichio con la parola «shabab». È il loro inno. Ma per capire in filigrana questa gioventù libica che si è rivoltata contro il rais, questa massa di giovani che invece di leggere Virgilio ascoltano musica techno-pop, guidano le Kia, le Lantra, le Spectra, si filmano e si ritraggono in quei riti di auto-identificazione e insieme di convalida del loro coraggio virile, dobbiamo partire da qui, da questa mutazione antropologica che trasforma un tranquillo studente di Bengasi e il suo amico saldatore in due volontari della guerra, che lasciano a casa la Honda e saltano sul pianale del pick-up con una mitragliatrice fra le gambe e l’incoscienza di chi va a sfidare i cannoni delle brigate lealiste di Gheddafi lasciando nel retrobottega della società le donne, le fidanzate, le sorelle, la cui presenza è solo suggerita, le cui gesta silenziose rimangono dissimulate dietro la marcia trionfale dei maschi. Ma è davvero una mutazione? Forse no. Forse, come dicono in molti, sotto la coltre della rassegnazione covava una sorda rivolta contro il “padre”, contro Gheddafi, contro il peloso moralismo di regime, contro l’asfissia di ogni pensiero libero, contro una società così povera di pensiero e di slancio da non avere intellettuali, scrittori, pensatori noti al mondo e neppure ai propri sudditi. E anche se la libertà per noi occidentali è qualcosa di più denso e nobile di una corsa in moto verso la dissoluzione, questi shabab che corrono frenetici su e giù dal fronte, ora avanzando con l’ausilio delle bombe della coalizione, ora ripiegando precipitosi, com’è avvenuto negli ultimi due giorni, hanno trovato finalmente uno scopo. Ma come nasce un guerriero rivoluzionario, chi lo istruisce, chi lo arma? Katibat al-Shuhadaa è il loro centro di addestramento, una caserma già appartenuta all’esercito libico regolare, gemella di un’altra andata distrutta durante la sollevazione di Bengasi. «L’addestramento – spiega Ahmed F., ex capitano dell’esercito – non avviene alla luce del sole. Il perché lei forse lo può capire da solo». Ci proviamo. La più facile delle congetture è che vi siano istruttori occidentali, inglesi, francesi, forse americani. Il training è rude ma elementare. Per ora basta a istituire posti di blocco, puntare una batteria di missili grad o le mitragliere sui pick up. «Non di più, perché gli addestratori sono prudenti», dice Ahmed. Ed è vero. La storia insegna: se li armi troppo, come in Afghanistan con i mujaheddin, poi ti ritrovi una milizia ben equipaggiata che ti si rivolta contro, come hanno fatto i taleban, o come è capitato in Angola e in Nicaragua. E a questo proposito fonte d’inquietudine è il ronzio per ora flebile ma comunque insistente che parla di infiltrazioni di al-Qaeda e di Hezbollah fra i shabab libici. Senza contare l’esplicito sostegno dei Fratelli musulmani, che apertamente appoggiano la rivoluzione e rivendicano l’uscita dalla clandestinità e un ruolo da protagonisti nella futura democrazia libica del dopo-Gheddafi. I giovani rivoluzionari tuttavia insistono: vogliono armi leggere e anche pesanti. I Kalashnikov non bastano, le mitragliere da 105mm neppure, le due o tre batterie Grad sono solo una puntura di spillo nella testuggine dei corpi d’élite del Colonnello. Ma sapranno adoperare armamenti più pesanti e sofisticati? Certamente no, avranno bisogno di nuovo addestramento, quindi di un’imbarazzante impiego di istruttori di altre nazioni. Esattamente ciò che la coalizione – profondamente divisa su quasi tutto – rilutta a fare. Eppure nei giorni scorsi abbiamo visto transitare dal valico egiziano di Sollum carichi di munizioni e di armamenti che il governo egiziano ha benevolmente finto di ignorare. Khaled e Samir li ho conosciuti durante la rotta di Ras Lanuf. Costretti come noi a fuggire nella notte prima che i missili e i mortai di Gheddafi ci raggiungessero. Per noi la ritirata è stata un momento di comprensibile angoscia, per loro una parte della festa. Fuochi ardevano nelle tenebre, il grosso delle milizie degli insorti accampato nei pressi di Ajdabiya. Li ho intravisti, Khaled e Shamir, accucciati a terra, il Kalashnikov appoggiato sullo zaino, un narghilé da cui esalava l’odore salmastro dell’hascisc, l’onnipresente rap libico che martellava. Ma che diamine di guerra è mai questa? E come sperate di vincerla da soli, shabab sventati sognatori, addormentati al termine della battaglia come i troiani Eurialo e Niso?