Un papà tenta di attraversare il confine nascondendosi in auto per sfuggire all'arruolamento forzato
L’ultimo l’hanno acciuffato ieri. Con la moglie, il figlio neonato e la madre di lei hanno provato ad attraversare il confine. L’uomo, per sfuggire all’arruolamento forzato, aveva ricavato sul sedile posteriore un box tra i peluche e pannolini nel quale nascondersi all’interno. Con la moglie alla guida dell’utilitaria sperava di passare inosservato e continuare a occuparsi della famiglia una volta superata la frontiera. Ma i controlli sono strettissimi. E i militari hanno voluto frugare per bene. Quando sotto ai pupazzetti hanno visto rannicchiato l’uomo, hanno estratto i fucili e un telefono. Con le armi gli hanno intimato di uscire, mentre con la fotocamera riprendevano la scena. Ora quelle immagini sono di dominio pubblico. E suonano come un avvertimento. E tra famiglia e patria, i maschi tra i 18 e 60 anni non hanno scelta.
Dove le macerie diventano trincea, al di qua del fiume Dnepr, quando il caseggiato rimasto uguale all’epoca sovietica annuncia l’ingresso nella città dei monasteri e dei santuari ortodossi, c’è chi le armi non le imbraccerà comunque. “Lo so che la nostra è legittima difesa, e che se anche dovessi uccidere il nemico per difendere la mia famiglia, mi verrà perdonato. Ma io non prenderò il fucile”.
L’ostinata nonviolenza di Yuri, tra le rovine della cintura esterna di una Kiev a cui l’armata russa ha mostrato cosa sarebbe capace di fare se entrasse tra le vie acciottolate del centro storico, non ha niente a che vedere con il pacifismo a oltranza. “Non ho nulla contro i pacifisti”, dice mentre si prepara a un’altra notte nello scantinato che tutti chiamano bunker, più per tirare su il morale che per reale capacità di resistenza delle strutture portanti. “Solo che io non voglio sparare a nessuno, non voglio uccidere, ma non voglio neanche morire”, aggiunge. Potrebbe però arrivare un momento in cui dovrai scegliere, gli facciamo notare: o la tua vita o quella di chi ti sta di fronte. “Può darsi che gli tirerò un sasso, oppure avrò così tanta paura da restare paralizzato aspettando che mi ammazzi”, risponde. “Intanto - aggiunge - cerco di dare una mano ai ragazzi che vanno a lottare. Gli spiego che non sono obbligati a farlo, ma che se lo fanno devono farlo per amore della nostra libertà, non per odio”.
Il confine della paura è sottile e insidioso almeno quanto quello che separa un codardo da un cecchino. Difficile dire che entrambi siano nel giusto. Ma per le strade di Kiev, di Odessa, di Ulman e di ogni altra trincea osservata in queste settimane non abbiamo trovato disprezzo per chi la guerra non la vuol fare. Olga, ad esempio, sa che il marito è esentato dal combattimento. Lo ha scelto lui. Niente fucili. Ma non è che si senta così tranquilla. Lui è un volontario del soccorso civile, di quelli che dopo l’onda d’urto arriva con la station wagon comperata a rate e trasformata in auto di primo soccorso, per raccogliere chi ancora ha un cuore che batte, o per radunare i pezzi di chi è stato centrato dall’esplosione.
Ci sono padri che vivono nascosti nei casolari più remoti. Tra balle di fieno e bestiame abbandonato. Non accendono neanche il fuoco, per non dare nell’occhio. Hanno accompagnato la famiglia al confine. La loro guerra l’hanno già vinta mettendo in salvo moglie e figli. Hanno anche provato a corrompere i gendarmi, ma non c’è stato niente da fare. Gli uomini vengono ricacciati indietro, verso le prime linee, ma non tutti hanno negli occhi il fuoco dell’eroe in armi.
A usare le categorie delle cronache di guerra, si direbbe che sono renitenti alla leva. Oppure disertori. “Io e Alessia non avevamo niente - racconta il ragazzo, sposo da tre settimane -. Ci siamo fidanzati e abbiamo trovato un lavoro, poi una casa e finalmente ci siamo sposati”. Hanno provato ad attraversare insieme la frontiera verso Chisinau, in Moldavia. Ma la poliziotta ucraina lo ha bloccato: “Devi combattere per la patria!”. Le lacrime di Alessia nessuno potrà mai descriverle. E’ rimasta anche lei, non ha voluto lasciarlo da solo. Lo implora di non unirsi alle milizie. “Allora combatteremo insieme”, gli dice quasi minacciandolo. Ma lui non si perdonerebbe di averla trascinata davanti al nemico. Si sente un vigliacco, un traditore di Kiev. Poi saluta con una di quelle frasi che starebbero bene nei libri: “Non andrò a combattere, devo proteggere lei. L’Ucraina è la mia terra, Alessia è la mia patria”. E di scrivere che è un disertore, proprio non riusciamo.