Q uattro novembre 2008: è la notte magica, quella della valanga democratica che travolge John McCain. Sul palco allestito al Grant Park di Chicago Barack Obama celebra il trionfo davanti a una folla in visibilio. Ringrazia tutti e ricorda che «la strada sarà lunga e in salita». L’America si veste di blu, il colore dei democratici. E ha un nuovo condottiero: Barack Hussein Obama, 47 anni, è già una scheggia conficcata nella storia. Primo afroamericano a diventare presidente. Candidato post-razziale capace di unire l’America attorno alla speranza di cambiamento. Promesse tante, oltre 500 ne ha contate il sito Politifact.com; aspettative altissime. La missione è complessa: sanare le ferite di un Paese lacerato. Ma governare è più difficile che vincere. Basterebbe guardare le foto. Trecentosessantacinque giorni dopo il tripudio di Chicago, Barack Obama ha il sorriso tirato, più capelli bianchi e qualche chilo in meno. Il peso della responsabilità, si dice. Ma anche quello delle battute d’arresto e degli errori di un’Amministrazione che ha buttato subito tutta l’agenda sul piatto. Raccogliendo finora tanti applausi per le intenzioni (e un Nobel per la Pace), ma non la stessa dose di sostanza. Obama resta amato, quasi idolatrato nel mondo, ma dentro i confini americani la sua popolarità è in declino. Dal 78% del giorno dell’insediamento a un 50% scarso. Mai nessun presidente ha perso così tanto in così poco tempo. Colpa della riforma della sanità, ovvero il cardine della politica interna del presidente. Lui la vorrebbe radicale, come chiedeva il suo mentore Ted Kennedy: potrebbe (dovrà?) alla fine accontentarsi di ritocchi sostanziali, però lontani dalla mutua pubblica. Per questo i liberal mugugnano. Da «Mr. change» Obama è diventato per molti il “Signor tentenna”. Bush era troppo decisioni- sta; Obama attendista. Approccio che gli sta costando molto anche sul tema del clima. Il Congresso ha bocciato il passaggio di una legge per la limitazione di gas inquinanti e Obama rischia di mandare al vertice Onu di Copenaghen in dicembre una delegazione Usa a mani vuote. E si può parlare di sogno infranto anche sulla chiusura di Guantanamo. Il 22 gennaio la firma sul provvedimento che fissava l’avvio dell’iter per chiudere la prigione fu il primo atto ufficiale da presidente. Oggi la promessa si è impantanata nelle secche di mille ostacoli. È andato con i piedi di piombo anche sulle questioni etiche. Non aprendo ai gay in divisa ma rovesciando (seppur fra mille cautele) il divieto di finanziamento pubblico per la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Il consigliere David Axelrod riconosce l’empasse: «Abbiamo seminato molto, ma il raccolto non può essere immediato». L’economia comincia a dare segnali di ripresa (+3,5% nell’ultimo trimestre), grazie anche al piano di stimoli per 787 miliardi di dollari. Ricetta keynesiana, soldi pubblici per trainare la crescita e creare lavoro. Ma la disoccupazione, anziché scendere, è salita sino al 10%. I repubblicani lo accusano di essere una superstar mondiale e di coltivare troppo la sua immagine. È volato in Danimarca per perorare ( perdendo) la causa olimpica della sua Chicago e ricevuto per appena 15 minuti sull’Air Force One il generale McChrystal, capo della missione Usa e Nato in Afghanistan. Se i conservatori Usa non perdonano nulla, il resto del Pianeta invece continua ad adorarlo. Per l’apertura all’islam nei discorsi del Cairo e in Turchia; per il disarmo nucleare invocato a Praga e ancora all’Onu; per il ripudio della tortura e per la conferma che entro il 2011 i soldati Usa saranno fuori dall’Iraq. Cambi di rotta, almeno in apparenza, rispetto allo stile da cowboy di Bush. Ma finora gli effetti sono ovviamente poco misurabili. I grandi del mondo gli hanno anche detto qualche no. Al G20 di Londra, in aprile, incassò il “nein” della Merkel sui piani di stimolo all’economia e sull’Afghanistan. Per non urtare i cinesi – possessori di una fetta larga del debito pubblico Usa – Obama ha rinviato a fine dicembre l’incontro con il Dalai Lama. E ha toccato solo timidamente con Pechino il tasto dei diritti umani violati in Tibet, fra gli uiguri o a danno dei cristiani. Il filo conduttore della sua politica estera è un misto di realismo e idealismo. Rahm Emanuel, capo dello staff, ha definito Obama «un realista con i valori». Ha rimesso nel cassetto la guerra preventiva e sostituito la Dottrina Bush (banalmente riassumibile in «non si dialoga con i nemici») con la ricetta Obama: quella della comunità mondiale che ha interessi comuni e che quindi deve collaborare. Obama non vede gli Usa come la nazione indispensabile (copyright Madeleine Albright), ma come «primum inter pares» e esalta il multilateralismo come modus operandi sulla scena internazionale. La cooperazione con le altre potenze parte da basi concrete. Da qui il «reset» delle relazioni con la Russia sino alla dismissione del progetto di Scudo spaziale in Est Europa. O il tentato dialogo con l’Iran cui ha assicurato il diritto ad avere un nucleare per scopi civili. Infruttuoso finora appare l’impegno per i negoziati fra israeliani e palestinesi, un tasto dolente dove spesso quel che ha detto Obama è stato smentito, ritrattato e poi ancora smentito da Hillary Clinton. Il rompete le righe in Iraq è figlio della volontà di aumentare l’impegno in Afghanistan. Dove agosto e ottobre sono stati i mesi più neri per i soldati Usa dal 2001. Intanto Obama valuta da mesi se e quanti uomini inviare come rinforzi. Se assecondare le richieste dei generali oppure gli umori dei democratici, molti dei quali vorrebbero invece un ritiro.