Ha superato quota 325.000 firme la petizione partita dall’Italia e indirizzata ai regnanti sauditi affinché sia risparmiata la vita al ventunenne Alì Mohammad al-Nimr. Aveva 17 anni al momento del suo arresto durante una manifestazione antigovernativa avvenuta nel febbraio 2012 ad al-Qatif, la regione orientale a maggioranza sciita. La sentenza che lo condanna alla decapitazione e alla crocifissione è stata confermata lo scorso 12 settembre dalla Corte Suprema saudita e, se verrà ratificata da re Salman, sarà eseguita nei prossimi giorni. Nei primi mesi di detenzione, il ragazzo ha visto aumentare i capi di imputazione. Tra questi, adesione a una cellula terroristica, aggressione contro poliziotti, supporto logistico a terroristi, confezione di bombe Molotov, amministrazione di un gruppo di contatti su Blackberry per organizzare proteste, rapina di negozi. La famiglia del ragazzo da mesi denuncia «confessioni» estorte sotto la tortura. «In questi mesi ho tanto desiderato morire», avrebbe confessato Alì alla madre durante il primo incontro, avvenuto sei mesi dopo l’arresto. Molti ritengono che la sentenza sia una sorta di vendetta. Lo zio di Alì è, infatti, lo sceicco sciita Nimr Baqer al-Nimr, noto critico del regime saudita, anch’egli in detenzione e in attesa di esecuzione di una condanna a morte. Subito dopo la conferma della sentenza è partita una campagna di mobilitazione a favore del ragazzo che ha visto l’adesione di molte personalità politiche, dal presidente francese François Hollande al capo dei laburisti inglesi Jeremy Corbyn, dalla presidente della Camera Laura Boldrini all’ex presidente tunisino Moncef al-Marzouqi. Ad accendere i riflettori sul caso, il fatto che l’Arabia Saudita presiede dallo scorso giugno il Gruppo consultivo del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (Unhrc) nonostante sia notoriamente tra i Paesi con il più alto numero di violazioni dei diritti umani. Nel Regno wahhabita sono state eseguite nei primi otto mesi dell’anno 114 condanne a morte: il Paese si piazza al terzo posto dopo la Cina e l’Iran. Peggio. Secondo rivelazioni di Wikileaks, rilanciate dalla stampa britannica, diplomatici di Londra e Riad hanno stretto nel 2013 un patto segreto per sostenersi a vicenda durante le elezioni dell’Unhrc. Molte Ong sollecitano ora pressioni su Riad richiamando il precedente dell’attivista saudita Raif Badawi: nel suo caso, l’attenzione mondiale è riuscita a bloccare le fustigazioni in pubblico. Anche Amnesty International ha sollecito il rifacimento del processo, lamentando il fatto che al ragazzo sia stato impedito di comunicare con il proprio avvocato. Silenzio pressoché totale, invece, nel mondo arabo. Il caso Nimr viene sollevato quasi esclusivamente dai servizi arabi di mass media occidentali, come
Cnn,
Bbc,
France24,
Deutsche Welle,
Swissinfo,
Russia Today e
Montecarlo. Durante una trasmissione andata in onda su
Al-Hurra, una tivù finanziata dal governo Usa, il padre del giovane ha parlato chiaramente di «vendetta» del governo saudita nei confronti della famiglia. «In caso di esecuzione della condanna, ha detto, temo ripercussioni negative sulla regione». «Chiedo a tutti di reagire pacificamente», ha aggiunto. Alì è stato ritenuto colpevole di hiraba, brigantaggio o danneggiamento dei beni, uno dei cosiddetti hudud, le pene contemplate dal diritto islamico. Il Corano prevede che i colpevoli di hiraba «siano uccisi o crocifissi, che siano loro tagliate la mano e la gamba da lati opposti o che siano esiliati sulla terra». La pena viene particolarmente sollecitata in alcuni Paesi musulmani contro gli oppositori politici, accusati di «seminare la corruzione sulla terra», secondo un versetto coranico.