Pakistan e islam sono termini che indicano la medesima cosa», diceva così uno fra i più sciagurati dittatori di questo instabile Paese, il generale Zia ul-Haqq, l’uomo che, negli anni ’80, ne impose la definitiva islamizzazione. Un’idea in verità lontanissima dal pensiero del fondatore del Pakistan, Muhammad Ali Jinnah, l’avvocato che abbandonò il Congresso nazionale indiano, il partito di Nehru e Gandhi, per guidare la Lega musulmana e lottare per la creazione dello stato dei musulmani d’India (il Pakistan appunto) una volta che si fossero ritirati gli inglesi dalla loro perla dell’Impero. Nel 1947 nacque così questo stato pensato per i musulmani ma non come uno stato islamico: per Jinnah il Pakistan doveva essere laico e tollerante, alleato indissolubile dell’Occidente. Con gli anni, l’islamismo ha mutato il progetto iniziale: proibito l’alcol (di cui in realtà si fa un grande consumo illegale) e adottata la sharia, riaperti i tribunali religiosi islamici, sempre più diffuse le madrasse legate alla corrente estremista deoband, e così via.Artefice dottrinale di questa trasformazione fu il pensatore islamista radicale Mawdudi, il fondatore della Jamaat-e Islami (Associazione islamica) e ispiratore proprio di Zia ul-Haqq. Per quei paradossi che gioca la storia quando si manipola la memoria, oggi Mawdudi è presentato come uno dei padri della patria. In realtà egli avversò a lungo l’idea stessa di uno stato dei musulmani separato dall’India, tanto che venne perfino condannato a morte da un tribunale del nuovo stato. Condanna mai eseguita, evidentemente.In un Paese scosso da una strutturale instabilità, indebolito da continui colpi di stato militari, lotte indipendentiste, guerre perdute, crisi finanziarie, incapace di trovare un equilibrio che rafforzasse le istituzioni del Paese, l’islam parve allora la risposta migliore, il collante per prevenire la disgregazione del Paese. Nel 1979, il governo militare di Islamabad emise le famigerate “Ordinanze Hudud”, le quali re-introducevano le pene previste dalla sharia e imponevano drastiche limitazioni alle donne e alla minoranze religiose, vanificando quanto fino ad allora fatto per liberalizzare i costumi del Paese e migliorare la condizione femminile. Veniva reintrodotta la lapidazione per le adultere, e le pene corporali. Di fatto diventava impossibile denunciare uno stupro: in mancanza di testimoni oculari la vittima veniva frustata e imprigionata per aver compiuto un atto sessuale fuori dal matrimonio. Uno dei pilastri di questo processo di islamizzazione radicale sono state le leggi contro la blasfemia, approvate alla metà degli anni ’80, che puniscono con la morte chi profana il Corano o ingiuria il profeta Maometto. Il punto è che basta l’accusa di essere stato blasfemo da parte di testimoni musulmani per avere la certezza della condanna a morte, oltre che la ritorsione di una folla aizzata dagli islamisti contro la propria famiglia o il proprio villaggio. Non servono prove: bastano delle testimonianze. Così, questa norma vergognosa si è rapidamente trasformata in uno strumento di minaccia, vendetta personale e abuso contro le minoranze e i cristiani. Un’arma puntata contro individui e comunità inermi, divenuti ostaggio di gruppi dogmatici che sempre più dilagavano nel Paese, sull’onda della guerra dei mujaheddin afghani che lottavano contro l’Unione Sovietica nel vicino Afghanistan. Proprio questa guerra, in cui il Pakistan ha giocato il ruolo cruciale di avamposto anti-comunista, ha favorito il dilagare delle frange più estremiste, anche fin dentro le forze armate e negli stessi apparati dello stato.Il sogno neppure nascosto di Islamabad era di controllare l’Afghanistan attraverso i mujaheddin prima e i taleban poi. In realtà, si è trasformato in un incubo con cui tutti a Islamabad devono fare i conti: il Pakistan ha perso l’Afghanistan, ma i taleban hanno “conquistato” intere zone del Paese, nella North-West Frontier Province e in Baluchistan, favorendo il dilagare del radicalismo islamico violento e anti-occidentale.E se tutto ciò è potuto avvenire è anche grazie alle leggi Hudud e alla legge anti-blasfemia. Tutti i tentativi di eliminarle o emendarle sono finora falliti, dinanzi alle violente proteste degli islamisti. Eppure, appare chiaro, il governo di Islamabad non ha altra strada: deve dare un segnale chiaro, ora, di discontinuità dalle forze più oscure e violente che si agitano all’interno del Paese. È tempo di dimostrare a una comunità internazionale sempre più perplessa e stanca di impegnarsi per aiutare paesi indifendibili, che in Pakistan i diritti umani fondamentali non vengono calpestati per compiacere vigliaccamente chi diffonde odio e terrore. Come nel 2001 dinanzi all’aut-aut statunitense, allorché il governo abbandonò i taleban e si schierò con Washington, così ora il presidente Zardari e il suo governo hanno l’obbligo di scegliere.