Fino all’ultimo, il percorso per arrivare a eleggere domani il Parlamento centrale e le Assemblee provinciali in Pakistan, si è colorato di rosso sangue. Confermando le parole di qualche giorno di un esponente governativo che aveva definito la campagna elettorale come «una delle più sanguinose nella storia del Paese». Le cinque settimane di propaganda e confronto dei candidati, infatti sono state segnate da un gran numero di fatti di sangue che hanno provocato oltre un centinaio di morti. A siglare in modo drammatico la fine della campagna, ieri, sono stati l’agguato che è costato la vita a quattro poliziotti nella città di Mansehra e un rapimento “eccellente” a Multan: quello del figlio dell’ex premier Yusuf Raza Gilani. Un atto compiuto da uomini armati che hanno sparato, uccidendo il segretario di Ali Haidar Gilani e ferendo cinque persone prima di allontanarsi portando con loro il candidato all’assemblea provinciale del Punjab. Un chiaro segnale verso il Partito del popolo pachistano, tra quelli più colpiti da violenze e intimidazioni, ma anche un messaggio altrettanto chiaro verso tutti gli elettori. Il leader taleban Hakimullah Mehsud ha fatto sapere che il movimento è pronto a compiere atti di terrorismo, anche suicidi in tutto il Paese per boicottare il voto di domani. «Non accettiamo il sistema che gli infedeli definiscono democrazia», ha scritto in una lettere inviata al suo portavoce e di cui l’agenzia
Reuters è entrata ieri in possesso. Davanti a questo annunciato «attacco alla democrazia», la Commissione elettorale, ha segnalato al capo delle Forze armate, generale Ashfaq Parvez Kayani, di ritenere «inadeguate le misure di sicurezza e ha chiesto di dispiegare tutti gli uomini disponibili nelle sedi elettorali». Dal 17 aprile, uno stillicidio quotidiano di attentati ha colpito soprattutto i partiti laicisti o di non stretta affiliazione religiosa, ma non ha fermato l’entusiasmo e l’interesse dei pachistani verso una tornata elettorale che potrebbe risultare determinante per il Paese. Domani oltre 86 milioni di elettori, su una popolazione di 193 milioni, andranno alle urne per eleggere 342 membri dell’Assemblea nazionale (la Camera del Parlamento federale), e i parlamenti provinciali. Sul tappeto il consolidamento del percorso democratico, il dibattito tra islamizzazione e laicismo, la centralità dei diritti umani e la libertà della pratica religiosa, il destino delle minoranze e la sfida dell’islamismo taleban e jihadista alle istituzioni civili. Povertà e sottosviluppo fanno da sfondo e da stimolo ai molti problemi del Paese, ma il voto definirà anche i rapporti con l’alleato americano, problematici nonostante la comune partecipazione alla «guerra al terrore», che potrebbero andare verso una radicale revisione. Quest’ultima non è solo la richiesta dei taleban e del loro fiancheggiatori, ma una priorità programmatica segnalata apertamente dai due partiti di ispirazione islamista che i sondaggi danno testa a testa in cima alla competizione elettorale. Sia Nawaz Sharif, presidente della Lega Musulamana (N), sia l’outsider Imran Khan, a capo del Pakistan Tehrik-e-Insaf, hanno chiarito che con la loro elezione l’alleanza militare con gli Stati Uniti in funzione anti-taleban e anti-terroristica, «sarà sospesa». Comunque andrà, il voto sarà per la popolazione un’occasione di «cambiamento», per mettere fine alla «cultura della corruzione, dell’intolleranza, della de-responsabilizzazione e del terrorismo», ha fatto sapere a
AsiaNews monsignor Rufin Anthony, vescovo di Islamabad-Rawalpindi, richiamando la speranza della minoranza cristiana chiamata a testimoniare con coraggio la scelta di dialogo e di piena partecipazione alla vita di un Paese al 96 per cento musulmano. Come ha ricordato il vicario generale della diocesi di Faisalabad, padre Khalid Asi, «la partecipazione, i processi democratici, il rispetto dei diritti umani, i principi di uguaglianza e cittadinanza, sono un patrimonio della Dottrina sociale della Chiesa che, come comunità cristiana, offriamo al nostro Paese, per costruire il futuro di pace e armonia». Per la prima volta nella nostra storia – ha ricordato a <+corsivo>Fides<+tondo> padre Asi – «un governo democraticamente eletto ha concluso il suo mandato. Posso confermare che la popolazione nel complesso, e le minoranze religiose in particolare, non si augurano un nuova era di dittatura militare».Nelle scorse settimane la Commissione Giustizia e Pace della Conferenza episcopale pachistana ha diffuso un manualetto dal titolo “Modalità di elezione per le minoranze religiose”, dove si critica il sistema di «elettorato separato» per le minoranze avviato dal dittatore Zia-ul-Haq. Una sostanziale «ghettizzazione degli elettori» su base religiosa, con i non musulmani che potevano votare soltanto per propri candidati. La Commissione Giustizia e Pace apprezza invece il sistema attuale, introdotto nel 2000, che consente piena libertà di voto.