Junaid Hafeez - Facebook
Un tribunale distrettuale pachistano ha condannato a morte in Pakistan Junaid Hafeez, assistente universitario, intellettuale, attivista per i diritti umani e a sua volta simbolo della condanna alla “legge antiblasfemia”, usata spesso in modo pretestuoso e opportunistico.
Accusato di avere apprezzato e diffuso posizioni offensive verso la sua stessa fede musulmana via Facebook e per questo arrestato nel 2013 a 27 anni di età, Junaid Hafeez è vissuto da allora in isolamento nel carcere di Multan, sotto la costante minaccia di uccisione. Il suo è diventato un caso emblematico, sia per la virulenza con cui gli estremisti religiosi ne hanno cercato la condanna e la morte, sia per le caratteristiche del giudizio che ha portato oggi i giudici a decidere per la pena capitale. Più volte negli anni, almeno otto, la corte è stata sostituita e ogni richiesta di accelerare il procedimento, come pure di cambiare la prigione in quella meno esposta di Lahore è caduta nel vuoto.
Nel maggio 2014, il suo avvocato, Rashid Rehman, è stato ucciso da due sicari per non avere rinunciato alla difesa di Hafeez, e ogni appello della Commissione pachistana per i Diritti umani, come pure di altre organizzazioni nazionali e straniere è caduta nel vuoto.
Una condanna alal massima peno non è inusuale al primo livello di giudizio e anche per lui l’appello potrebbe risultare in una condanna più mite o nell’assoluzione. Tuttavia, la prima domanda che in molti si fanno è: quanto dovrà ancora attendere? E la seconda, spontanea, se nel frattempo riuscirà a sopravvivere alla dura detenzione e fanatismo omicida.