La superstrada costiera che da Beirut porta a sud, a Tiro, a Sidone, a quella barriera naturale che è il fiume Litani e giù fino alla Linea Blu, quel confine disegnato da Israele dopo la guerra del 2006 era considerata la più sicura del Libano. Il merito, sia detto senza alcuna spigolatura retorica, stava nell’ottimo lavoro svolto dagli italiani della missione Unifil (acronimo per United Nations Interim Force in Lebanon), la forza di interposizione creata nel lontano 1978, ma che negli ultimi cinque anni assolveva – secondo quanto prescritto dalla risoluzione 1701 del Palazzo di Vetro – il compito di pacificare l’area meridionale del Libano, quella cioè controllata dal movimento Hezbollah, la stessa da cui nel 2006 partì l’attacco contro Israele e che cagionò la guerra dei 35 giorni.Gli italiani aderirono alla missione con l’Operazione Leonte, che schierava un contingente interforze di 2500 militari (ora ridotti a 1780), alla testa del quale si sono succeduti corpi e brigate di ogni genere, dai bersaglieri ai paracadutisti, dal genio all’artiglieria. Ma non era nella forza dissuasiva delle armi che risiedeva il successo della missione Unifil. Il contingente italiano – forse il migliore al mondo quanto a tecnica ed esperienza di
peacekeeping – aveva insegnato ai libanesi il valore della convivenza civile. Era questo l’orgoglio dei responsabili della missione che chi scrive ha avuto l’occasione di incontrare nelle basi italiane disseminate nello zoccolo meridionale del Paese dei Cedri, dal generale di brigata Paolo Gerometta, comandante della brigata di cavalleria Pozzuolo del Friuli, al generale Giuseppenicola Tota, che comandava la brigata bersaglieri Garibaldi, fino al generale di corpo d’armata Claudio Graziano. Per tutti, la priorità della missione Unifil era, oltre a mantenere fisiologicamente basso il livello di ostilità fra la componente Hezbollah e il vicino Israele e al tempo stesso spegnere le tensioni che fra il Partito di Dio e l’Armée Libanaise potessero sorgere per ragioni di competenza territoriale, l’Operazione Leonte aveva significato una sorta di grande lezione di tolleranza. I libanesi questo lo sapevano, perché dagli italiani avevano ricevuto dimostrazioni quotidiane di come la pace si costruisce pezzo per pezzo: con l’apertura di consultori, il riassetto di ospedali, la costruzione di scuole, il rispetto del codice della strada, fino alle cose minime di tutti i giorni, come la raccolta differenziata dei rifiuti: «Una novità assoluta in Libano – mi disse il generale Tota – dove tutti gettavano ogni rifiuto per terra, ma a poco a poco hanno imparato a capire che una strada sgombra è più civile e più salutare di una ingombra di rifiuti». Piccole e grandi cose, come quel giorno in cui si riuscì a convincere un riottoso marito sciita a far vistare la moglie incinta in uno degli ospedali riattivati dal contingente italiano a Tiro, il che permise, e il merito – per quel che chi scrive può testimoniare direttamente – va tutto a un colonnello della "Garibaldi", che fece da ambasciatore fra la famiglia della donna e i medici che l’attendevano nella sala operatoria.Per queste faccende, essenzialmente, noi italiani eravamo lì, in quel bel Paese affacciato sulla sponda sud del Mediterraneo, martoriato per quindici anni da una guerra civile, poi di nuovo dall’occupazione siriana, poi ancora dall’assassinio del premier sunnita Rafik Hariri, quindi di nuovo sotto scacco per l’impossibilità di trovare una formula di governo che accontenti le tre grandi famiglie religiose libanesi, quella cristiana, quella sunnita e quella sciita.A nessuno sfuggiva tuttavia che la presenza sciita nel sud del Libano, dove non si muoveva foglia senza che gli Hezbollah lo sapessero, era paradossalmente una garanzia di pace e al tempo stesso un focolaio di guerra. La predominanza del "Partito di Dio" dello sceicco Hassan Nasrallah era assoluta, gli sciiti di "Amal" (l’altra compagine presente nella regione) contavano poco. E verosimilmente i vari comandanti Unifil sapevano bene che il traffico di armamenti dalla Siria alla zona sorvegliata dall’Unifil era costante, tanto che l’intelligence israeliana stimava che l’arsenale missilistico di Hezbollah avesse raggiunto le 40 mila unità. Nessuno si illudeva di poterli disarmare, ma era opinione condivisa che nel settore Unifil non si sarebbero mai verificati fatti d’arme importanti. Invece l’agguato terroristico, nel peggiore dei suoi accenti, quello dell’ordigno anticarro, si è affacciato anche in Libano, con le stesse modalità che insanguinano da anni l’Afghanistan. Forse il prodromo di un’altra ben più sanguinosa guerra.