Si aggrava il bilancio della rivolta scoppiata tre giorni fa nel quartier generale a Dacca del Brd, le guardie di frontiera del Bangladesh. E l’intera vicenda – con l’ammutinamento che si è concluso due giorni fa dopo 33 ore di battaglia – assume risvolti sempre più macabri. Continuano infatti i ritrovamenti di altri cadaveri in decomposizione di 38 ufficiali trucidati a sangue freddo durante gli scontri. Stando a fonti dei servizi di soccorso, il numero dei morti confermati è ormai arrivato a superare le settanta unità, compresi almeno quattro civili rimasti accidentalmente coinvolti negli scontri tra insorti e truppe governative. Le stime sono però che si arriverà a oltre cento vittime, il doppio di quanto era stato ipotizzato all’inizio. Tra quelle già accertate c’è anche il comandante del corpo paramilitare, generale Sakil Ahmed, che stando a testimoni oculari sarebbe stato giustiziato a sangue freddo quasi subito, crivellato di proiettili. Ieri il primo ministro del Paese asiatico, signora Sheikh Hasina, ha provveduto a nominare al suo posto il pari grado Moinul Hossain. Intanto continuano le retate e gli arresti dei rivoltosi: in manette sono finite quasi duecento guardie di frontiera arrestate dalle unità scelte dell’esercito del Bangladesh. Secondo fonti delle forze di sicurezza, i ribelli sono stati intercettati mentre cercavano di fuggire, dopo aver indossato abiti borghesi per non essere riconosciuti. Posti di blocco sono stati eretti lungo tutte le strade che conducono fuori città, soprattutto nei dintorni della caserma teatro dell’insurrezione, che rimane tuttora circondata dalle truppe governative, appoggiate da carri armati e blindati; perquisiti i veicoli in transito, specie camion e pullman, ma anche i treni e persino i traghetti. Secondo le stesse fonti, gli insorti si sarebbero sbarazzati di gran parte dei resti delle loro vittime gettandoli in canali e fognature, oppure nascondendoli nella boscaglia o seppellendoli. La ribellione era scattata al termine di una riunione tra un gruppo di guardie e i loro superiori, che ne avevano respinto le pretese di aumenti salariali; i ribelli non volevano inoltre più sottostare all’autorità dell’Esercito, cui spetta la supervisione sull’operato del corpo paramilitare. Nel concedere l’amnistia a chi avesse deposto le armi il primo ministro del Paese asiatico, signora Sheikh Hasina, si è impegnata ad accogliere gradatamente una parte delle richieste.