giovedì 19 novembre 2009
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Il commento più acido è quello del Los Angeles Times: «Non solo il presidente Usa torna senza nessuna concessione definibile, ma i cinesi sono sembrati irremovibili». Luci, ma soprattutto molte ombre sull’epilogo della tappa cinese di Barack Obama. Ieri il presidente statunitense ha lasciato Pechino dopo aver incontrato il premier Wen Jiabao ed è giunto a Seul, fatica conclusiva del tour asiatico.Ma erano puntati su Pechino riflettori e attenzioni degli analisti. Se il presidente Usa è volato in Asia con una miriade di richieste e di dossier aperti, torna in patria (stasera) con la valigia quasi vuota. Risultati tangibili pochi, anche se, notava il Washington Post, «i toni sono mutati, sono apparsi più concilianti». Un’esigenza dettata dalla realtà più che dalla volontà degli Stati Uniti. Negli ultimi anni la crescita cinese ha alterato equilibri di potere in campo politico ed economico. Quando nel 1998 Clinton si recò a Pechino e tenne un discorso rilanciato dalla tv di Stato cinese, l’America era debitore più della Spagna che della Cina (a quel tempo il settimo creditore Usa, oggi il primo con quasi 1 miliardi di dollari in bond del Tesoro) ed era il Messico a dominare il commercio con Washington, non certo le aziende della Repubblica popolare. Uno scenario che oggi sembra preistoria. Oggi l’America è un gigante economico indebolito, la Cina il competitore in ascesa. Sin dal primo discorso a Tokyo il leader statunitense ha sottolineato che gli Usa non vogliono limitare la crescita cinese. A Hu Jintao, Obama ha anche ribadito la validità della One China Policy. Ma è chiaro che i rapporti di forza sono mutati rispetto al 1998. Washington non è più la superpotenza unica e vittoriosa della Guerra fredda. Se undici anni fa Clinton poté parlare ai cinesi in diretta tv e la first lady Hillary Clinton accusò il regime di non rispettare i diritti umani, Obama è stato costretto a tenere una conferenza stampa in stile cinese (senza domande dei reporter e ingessata). Un segno evidente che sono stati i cinesi a dettare tempi e modi dell’incontro. Obama ha assestato qualche colpo toccando qua e là il nodo dei diritti umani: prima parlando della censura di Internet e della libertà di espressione e di culto con gli studenti a Shanghai; poi invitando Pechino a dialogare con il Dalai Lama. Ma sono sembrate uscite estemporanee. I nodi sono altri e sono rimasti insoluti. La debolezza dello yuan, l’accusa di protezionismo mossa da Hu e dai big cinesi agli Usa; sull’Iran e sul clima si è andati ben poco al di là di dichiarazioni d’intenti. Ci sono tuttavia anche degli accordi, nel campo della sanità (potenziare la ricerca sulle cellule staminali embrionali), dell’agricoltura, dell’energia pulita e anche la promessa di mantenere attivi i canali di comunicazione ad alto livello fra militari e diplomatici.Alla Casa Bianca dicono che gli esiti del cambio di atteggiamento, ovvero più pragmatismo e individuazione di terreni comuni di collaborazione, avrà risvolti a lungo termine. E lo staff del presidente ha puntato sul fatto che Obama è riuscito a far passare il suo messaggio ai cinesi, nonostante le restrizioni imposte ai media. Il presidente, dicono i portavoce, è stato incisivo nel faccia a faccia con Hu, quando ha parlato della debolezza artificiale dello yuan, più di quanto sia apparso in conferenza stampa. Ieri Wen Jiabao ha ribadito che la Cina non vuole uno squilibrio del commercio con gli Usa e un surplus a vantaggio di Pechino. Ma intanto sullo yuan è sceso il silenzio. Nessuna rivalutazione sembra in atto e come ha dichiarato l’analista della Renmin University di Pechino Jin Canrong, «ogni politica in Cina, inclusa quella monetaria, sarà basata sugli interessi nazionali e non certo su pressioni esterne».
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