In più di due anni, il rapporto fra Benjamin Netanyahu e Barack Obama non è mai stato affettuoso. Ieri – all’indomani del discorso in cui il presidente Usa ha proposto i confini del 1967 come punto di partenza del processo di pace in Medio Oriente – ha toccato il fondo. Dopo quasi due ore di teso confronto allo Studio Ovale (l’incontro doveva durare dopo più di mezz’ora) i due uomini politici sono emersi ammettendo che «rimangono differenze fra Stati Uniti e Israele sul come raggiungere la pace in Medio Oriente». Una definizione minimalista dell’abisso che l’intervento di Obama ha scavato fra due leader. Il difficile faccia a faccia era stato anticipato da una telefonata furiosa del premier israeliano al segretario di Stato Hillary Clinton, in cui Bibi Netanyahu si era lamentato del contenuto dell’intervento del presidente Usa. Quindi dal giudizio a caldo di Netanyahu che i confini del 1967, prima della Guerra dei sei giorni e dell’occupazione di Gaza e della Cisgiordania, sarebbero «indifendibili». Il primo ministro a ribadito ieri alla stampa il suo giudizio: «Non possiamo tornare a quelle linee di confine», ha esclamato con forza, fissando Obama che si trovava al suo fianco. «Israele vuole la pace», ha continuato, ma non ha precisato quali concessioni lo Stato ebraico sia disposto a fare. Nonostante Obama abbia sdrammatizzato che «queste cose capitano fra amici», toni tanto accesi non si erano mai visti fra i due, nemmeno quando, nel marzo dello scorso anno, il capo della Casa Bianca aveva chiesto a Israele di interrompere la costruzione di insediamenti in Cisgiordania. Un furioso Netanyahu aveva ignorato la richiesta, costringendo Obama ad abbandonarla e a subire un’umiliazione internazionale. Evidentemente l’affronto alla Casa Bianca non è stato dimenticato: Obama questa volta sembra meno disposto a fare marcia indietro. Ieri in privato Netanyahu avrebbe accusato il capo della Casa Bianca di ignorare le promesse di George W. Bush, che avrebbero permesso a Israele di tenere la Cisgiordania, di minimizzare la gravità dell’accordo di riconciliazione fra Fatah e Hamas; e di ignorare la richiesta di Israele di mantenere una presenza militare sul Giordano. Obama avrebbe replicato ribadendo che i confini del 1967 potrebbero essere modificati d’accordo con i palestinesi e che la linea dura di Israele porterà solo a maggiori scontri. Sullo fondo e a complicare il dialogo restano le elezioni presidenziali del 2012 e un discorso di Obama, domani, alla principale associazione ebraica americana, la politicamente influente Aipac. Resta inoltre la spada di Damocle dell’Assemblea generale dell’Onu di settembre, durante la quale la Palestina intende chiedere il riconoscimento unilaterale come Stato sovrano. Un passo che isolerebbe Israele e che Obama considera sbagliato e rischioso e che nel suo intervento ha chiesto ai palestinesi di non intraprendere. L’Anp di Abu Mazen ha accolto con tiepido favore le proposte di Obama, scettica però sulla sua volontà di spingere fino in fondo Israele a fare concessioni territoriali. E in Israele inoltre non tutti sono allineati con la posizione del premier. La leader di Kadima (opposizione centrista), Tzipi Livni, considera esagerata la reazione di Netanyahu e lo accusa di «far pagare a Israele il prezzo della stabilità della sua coalizione anche a costo di trattare come nemico» un alleato vitale come gli Stati Uniti.