Che per la Cina sarebbe stato un Nobel altamente urticante, lo si era intuito da tempo. Dal fuoco di fila che il regime aveva indirizzato a chiunque osasse sfidarlo. Quando all’inizio dell’anno Pen Club, l’associazione internazionale per i diritti umani, propone il nome di Liu Xiaobo – condannato a 11 anni di carcere il 25 dicembre scorso per «incitamento a sovvertire il potere dello Stato» –, Pechino liquida tutto come un «ovvio errore». Peggio fa il vice-ministro degli Esteri cinese Fu Ying. Durante una visita a Oslo la scorsa estate recapita un messaggio bellicoso al direttore dell’Istituto norvegese per il premio Nobel, Geir Lundestad: il Nobel per la pace al dissidente sarebbe stato interpretato come «un atto ostile», con tanto di preannunciate «conseguenze negative per i rapporti tra la Norvegia e la Cina». E ieri, quando il Comitato norvegese ha “incoronato” Liu Xiaobo «per la sua lunga e non violenta battaglia in favore dei diritti umani fondamentali in Cina», la reazione del Dragone è stata ancora più veemente. Il premio? «Un’oscenità» – si legge sul sito Web del ministero degli esteri di Pechino – che «viola completamente i principi» della stessa istituzione. Il «premiato» altro non è che «un criminale» che è stato condannato «dalla giustizia cinese». La decisione è destinata a «nuocere alle relazioni tra la Cina e la Norvegia». Il ministero degli Esteri cinese ha ricordato che, secondo le parole del suo fondatore Alfred Nobel, il premio per la pace deve essere assegnato a «persone che hanno promosso la fratellanza tra le Nazioni, l’abolizione o la riduzione degli armamenti e che si sono sforzate di promuovere iniziative di pace». Le «azioni» di Liu Xiaobo, conclude il comunicato, sono «completamente contrarie» a questi principi. Non solo: Pechino ha convocato l’ambasciatore norvegese per protestare in maniera ufficiale. Oscurata la diretta televisiva della
Bbc. È stata persino annullata la conferenza stampa che avrebbe dovuto tenersi al termine del vertice Ue-Cina. E, secondo il comitato che conferisce il premio, lo stesso Liu Xiaobo non è stato informato in carcere del riconoscimento ottenuto. Premio Nobel, insomma, ma senza nemmeno poterlo sapere.Come era prevedibile, la “mossa” norvegese è stata percepita da Pechino come uno schiaffo. Una intollerabile intrusione perché tocca un nervo scoperto: quello dei diritti umani calpestati. E del sordo malcontento che cova sotto le ceneri dell’“impero” e che l’impetuoso sviluppo economico cinese non è riuscito mai a cancellare del tutto. Le motivazioni del comitato suonano alle orecchie del regime di Pechino come una sfida. «Nei decenni passati – si legge nella motivazione voluta dal presidente del comitato norvegese Thorbjoern Jagland – la Cina ha raggiunto risultati economici difficilmente eguagliabili nella storia. Il Paese è oggi la seconda economia più grande del mondo; centinaia di milioni di persone sono state sottratte alla povertà. Anche le possibilità di partecipazione politica sono state ampliate. Il nuovo status della Cina deve comportare una maggiore responsabilità». A Pechino brucia ancora la ferita del 1989, quando il Nobel andò al Dalai Lama, il leader spirituale dei tibetani, l’odiato «animatore della cricca» che, secondo Pechino, attenterebbe al dogma dell’unità nazionale. Allora l’eco mediatica della repressione di piazza Tienanmen e il carisma del leader tibetano fecero precipitare la Cina in un isolamento che solo lo sviluppo economico riuscì poi a infrangere. E di quella storia – il massacro di Tienanmen – Liu Xiaobo incarna oggi la memoria. Carta 08, il documento politico uscito il 10 dicembre 2008 in occasione del Sessantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo, propone poi un vero “ribaltamento” del regime e della sua politica. Il Nobel, inevitabilmente, accenderà i riflettori sui lati oscuri del regime. Ma oggi la Cina – divenuta la seconda potenza economica mondiale dopo aver scavalcato il Giappone – ha armi ben più potenti e affilate per respingere qualsiasi pressione internazionale.