Un gruppo islamico ha rivendicato gli attentati dei giorni di Natale in Nigeria, che hanno causato oltre 80 morti secondo gli ultimi bilanci, minacciando di proseguire con le violenze. Nel messaggio si afferma: "O nazioni del mondo, sappiate che gli attacchi di Suldaniyya (Jos) e Borno sono stati compiuti da noi, Jamàatu Ahlus-Sunnah LiddàAwati Wal Jihad, sotto la direzione di Abu Muhammad, Abubakar bin Muhammad Shekau". Il nome del gruppo significa Popolo devoto agli insegnamenti del Profeta per la propagazione della Jihad, lo stesso nome che avevano annunciato di voler assumere gli integralisti islamici della setta Boko Haram, che lo scorso anno diedero vita a una sollevazione che provocò molte vittime. Gli attentati, secondo la rivendicazione "devono segnare l'inizio della vendetta dopo le atrocità commesse contro i musulmani nella regione e nell'intero paese", e si annuncia che la campagna continuerà.
LA CRONACA«La situazione è sotto controllo». Lo ripetono di continuo le autorità nigeriane, come un leitmotiv. A Jos, il fumo delle case incendiate ha smesso di annerire il cielo. Gli spari non interrompono più il silenzio. Le violenze si sono arrestate. Almeno per il momento. L’ingombrante presenza – ad ogni angolo – di poliziotti antisommossa tradisce la tensione. Forte, evidente e palpabile. La paura si percepisce nei volti delle persone, nelle finestre sprangate delle case, nell’assenza – altrettanto ingombrante – di bambini per strada. Ieri è stato il primo giorno di “tregua armata”, dopo 72 ore di conflitti, in cui sono state uccise – secondo l’ultimo bilancio del governo – almeno 40 persone, in maggioranza cristiane. I feriti sono oltre un centinaio. Una strage. Che ha insanguinato le celebrazioni natalizie nella regione del Plateau central, la “terra di mezzo” – così la chiamano – spartiacque tra le due Nigerie: quella musulmana e pastorale del Nord, e quella cristiana, animista e agricola del Sud. Negli ultimi dieci anni, i conflitti tra questi due mondi sono stati a volte feroci. Mai prima d’ora però c’era stato un attacco deliberato proprio in occasione di una festa religiosa tanto importante per una delle religioni maggioritarie. Stavolta, invece, i criminali hanno voluto colpire a Natale, uno dei momenti chiave della cristianità. La notte del 24 dicembre – mentre i fedeli facevano la tradizionale cena, qualche ore prima della Messa di mezzanotte – una raffica di bombe ha straziato i villaggi rurali e la stessa Jos. Almeno 32 persone sono state uccise. Diverse decine sono, poi, morte nelle ore successive. L’attentato ha innescato una spirale violenta: bande di giovani musulmani e cristiani si sono scontrati per le strade. Alcune case sono state date alle fiamme. Le celebrazioni religiose sono saltate e la gente si è barricata in casa. Il giorno dopo, il 25 dicembre, il gruppo integralista islamico Boko Haram ha assaltato due chiese a Maiduguri. A Santo Stefano ci sono stati nuovi tafferugli che hanno fatto una vittima. Poi, fortunatamente, il massiccio dispiegamento di forze dell’ordine ha arrestato gli scontri. Nel Plateu central è tornata la calma. Il rischio di nuove esplosioni di aggressività è, però, alto. Ieri il Segretario generale dell’Onu Ban Kimoon si è detto «costernato» per gli scontri «che hanno causato tante vittime innocenti». Una dura condanna delle violenze è stata espressa anche dal ministro degli Esteri italiano Frattini e dall’ambasciatore italiano ad Abuja, Roberto Colaminè che ha incontrato il ministro degli esteri nigeriano Henry Odein Ajumogobia. Quest’ultimo gli ha assicurato l’impegno del suo governo a punire al più presto i colpevoli e a garantire la libertà di fede. Un’affermazione ripetuta dallo stesso presidente Goodluck Jonathan. Le ragioni del “massacro di Natale” sono più di matrice economico-politica che religiosa. Da oltre un decennio, è in corso il conflitto latente tra i pastori nomadi del Nord e i contadini del Sud per l’uso delle terre. La tensione si fa più forte quanto minore è la disponibilità di risorse. A questo, si è aggiunge ora l’imminente designazione del prossimo candidato alla presidenza del partito principale, il Pdb. Un accordo informale prevede l’alternanza tra esponenti settentrionali e meridionali. Jonathan è del Sud ed è subentrato come leader alla morte del precedente capo di Stato, Umaru Yar’dua, del Nord. L’attuale presidente vorrebbe, dunque, ripresentarsi. Una frangia el Pdb preferirebbe al suo posto, il settentrionale Atiku Abubakar. Il 13 gennaio si svolgeranno le primarie. Il voto è, invece, previsto ad aprile. È probabile, dunque, che il mix di tensioni economiche-politichereligiose (usate queste ultime in forma strumentale) possa sfociare in nuove tensioni.
Lucia Capuzzi