martedì 16 aprile 2013
Jos, confine macchiato di sangue cristiano Un luogo dove la morte è sempre in agguato. «Ho avuto fortuna, sono ancora vivo». Incursioni, esecuzioni sommarie, autobombe e stragi. Lo Stato del Plateau è una delle più critiche aree di frattura del continente. (di Anna Pozzi)
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«Quando sono entrati in casa, sono andati prima nella stanza dei bambini, poi sono venuti nella nostra. Io e mia moglie stavamo dormendo. Ci siamo molto spaventati. Hanno cominciato a minacciarci e a chiedere soldi. Non volevano altro. Ho detto che ero un povero agricoltore e che non avevo quasi niente. E poi avevo appena pagato le tasse scolastiche dei figli... Hanno minacciato di ucciderci. Ho dato il poco che avevo. Mi hanno chiesto chi erano i più ricchi del villaggio. Ho detto che eravamo tutti dei poveri agricoltori. Mi hanno minacciato di nuovo. Poi però se ne sono andati senza farci niente. Siamo stati fortunati…».Simon Balan, padre di sette figli, è stato davvero «graziato». Perché altri come lui oggi non possono raccontare. «Se sei fortunato non ti uccidono, se no, ti ammazzano. Così!». E fa un gesto come se per quelli la vita non valesse nulla.Nel suo villaggio di Mangor, nei giorni prima e dopo Pasqua, una ventina di persone sono state uccise da gruppi di fulani armati, che sono passati di casa in casa, saccheggiando e chiedendo denaro, uccidendo e bruciando le capanne.Oggi la famiglia di Simon si trova accampata nella parrocchia St Thomas di Bokkos, dove sono ammassati circa trecento sfollati. Lui torna di tanto in tanto al villaggio, ma da quattro notti dorme nella savana. La situazione è ancora troppo pericolosa, dice. Non si fida a restare nella sua capanna. Così come non si fidano le centinaia di donne e bambini, sistemati alla bell’e meglio sotto una tettoia della parrocchia, in alcuni locali della vecchia canonica e persino in chiesa.«Facciamo quello che possiamo», dice il parroco, don Andrew Danjuma Dewan, che sta ricevendo una delegazione della Commissione giustizia, sviluppo e pace della diocesi di Jos, che porta generi di prima necessità e coperte. «Cerchiamo di dare almeno un riparo e un po’ di sicurezza. Ma le autorità non ci aiutano. Questa gente ammassata qui è un bersaglio molto vulnerabile, ma il governo locale non garantisce neppure un minimo di protezione». Di tornare a casa non se ne parla proprio. Nessuno osa farlo. Anche perché tutto lo Stato di Plateau sta conoscendo in queste settimane un riaccendersi di violenze e scorribande, che vedono protagonisti gruppi di pastori fulani che si scagliano contro gli agricoltori birom. Sono almeno una quarantina le vittime degli attacchi degli ultimi giorni: in questo mese, più di cento.È, questo, uno dei livelli dello scontro che da più di dieci anni destabilizza lo Stato di Plateau, nella Nigeria centrale. Una regione che si trova lungo una delle più critiche linee di frattura dell’Africa, terra di incontro-scontro tra popoli (pastori e agricoltori), religioni (cristianesimo e islam), interessi economici e politici (locali e nazionali). Con l’elemento esplosivo di Boko Haram che si è inserito negli ultimi anni a complicare ulteriormente le cose.Jos è una città blindata: posti di blocco che si moltiplicano man mano che ci si avvicina; forze dell’ordine ovunque; stazioni di polizia, uffici pubblici, chiese protette da cancellate, sbarre, guardie… Nella parrocchia di St. Finbarr, sono pochi ma significativi i segni che ricordano la strage dell’11 marzo 2012, quando due kamikaze di Boko Haram, a bordo di una macchina, hanno cercato di sfondare il cancello e di farsi largo tra i boy scout che vigilavano l’ingresso. L’auto è esplosa nel cortile antistante la chiesa, uccidendo 14 persone, ma non riuscendo a fare la strage di massa che si erano proposti.Il parroco, padre Peter Umoren, se li ricorda bene quegli istanti di terrore, sconcerto e smarrimento. «Avevo appena cominciato a celebrare la messa delle 10,30, quando abbiamo sentito una fortissima esplosione. Tutte le vetrate dietro l’altare sono crollate e anche parti del tetto della chiesa. La gente urlava e cercava di scappare. Non capivamo cosa stesse succedendo». Fuori, morti e feriti, corpi fatti a pezzi, alcuni che bruciavano, la carcassa della macchina in fiamme. Oggi quelle lamiere contorte sono diventate un monumento alla memoria. Per non dimenticare.Neanche Joseph può scordare quei momenti: «Mio suocero era uscito dalla prima messa con tutta la famiglia. Lui però si era soffermato all’ingresso per dare una mano ai boy scout. E così è stato coinvolto nell’esplosione dell’autobomba. Subito dopo l’esplosione aveva il corpo ustionato per metà, ma era ancora cosciente e mi ha raccontato quello che era successo. È morto il giorno dopo all’ospedale».La moglie Regina, i cinque figli e un nipotino, vivono in una casupola molto modesta, poco distante dalla parrocchia. «Non ce la faccio più – ammette lei scoraggiata – non so come andare avanti. Il governo non ci ha mai aiutato, la Chiesa ha fatto qualcosa, un amico di famiglia paga le rette scolastiche di due figli, ma non so davvero come fare...».Anche i genitori di padre Alex Dung erano lì quel giorno. In fuga dalla loro casa nei pressi della cattedrale, hanno rischiato nuovamente la vita nella parrocchia di adozione. «La zona della cattedrale oggi è praticamente disabitata – racconta padre Alex – lì sono avvenuti gli scontri più violenti a cominciare dal 2001. Stavamo preparando le celebrazioni del 40° anniversario di matrimonio dei miei genitori, quando, nella notte, gruppi di fulani hanno attaccato il quartiere e bruciato molte abitazioni. Quelli che hanno cercato di tornare indietro per recuperare le loro cose sono stati uccisi. Anche la canonica è stata bruciata. Ci sono stati centinaia di morti e poi una serie di ritorsioni e vendette. Di nuovo, nel 2010, altri scontri. Alla fine, i miei genitori hanno deciso di andarsene».Oggi la città è divisa in maniera piuttosto netta tra quartieri cristiani e quartieri musulmani. Quello attorno alla cattedrale è quasi un quartiere fantasma. Ma la gente continua ad andare in chiesa. È numerosa. Ed è gioiosa. Mostra un dinamismo e un’esuberanza straordinari. La Chiesa perseguitata della Nigeria è viva più che mai.
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