Più che un incontro, uno scontro. Obama e Netanyahu non hanno deluso le aspettative di chi voleva qualcosa dal faccia a faccia di ieri alla Casa Bianca. Qualcosa, qualunque cosa (perfetta intesa o sostanziale disarmonia) che rompesse lo stallo nei progressi sul processo di pace. Il presidente americano e il premier israeliano hanno parlato per ore e nessuno dei due ha fatto mezzo passo indietro rispetto alle rispettive posizioni. Netanyahu è arrivato a Washington perfettamente allenato alla maratona negoziale con Obama. Sapeva quello che il presidente gli avrebbe chiesto: quelle cinque parole – «due popoli per due Stati» – che da quando è premier si è sempre rifiutato di pronunciare, trincerandosi in una studiata ambiguità. Ieri, ritrovando a Washington il piglio da “falco” della destra israeliana, ha rotto gli indugi, e di fronte agli occhi di Obama, e con quelli del mondo addosso, ha chiarito che Israele non prende in considerazione lo spazio politico e territoriale per la nascita di uno Stato palestinese. Niente Stato, almeno per ora. Piuttosto, una forma di «autogoverno» dei palestinesi. Deve essere stato questo il punto su cui il colloqui tra i due leader si è protratto oltre il previsto. Questo il punto su cui Obama si è sentito di esprimersi con particolare vigore al termine dell’incontro, sottolineando la necessità e l’urgenza con cui gli Stati Uniti valutano la necessità della nascita di una nazione palestinese. Il presidente americano ha ribadito con fermezza la richiesta, disinnescando con fluidità i tentativi del premier israeliano di porre al centro della discussione la questione iraniana, sicuramente più delicata ma decisamente meno urgente di quella palestinese (almeno per Obama). Netanyahu era arrivato negli Stati Uniti insistendo che il nodoTeheran era «al primo posto e al secondo e anche al terzo» della sua agenda. Contava su un inevitabile interesse dell’alleato, che nell’isolamento dell’Iran vede la possibilità di ricondurre la Siria nell’alveo dei Paesi arabi moderati. Ma ha fatto male i suoi conti. Obama, che con Teheran sta cercando un difficile dialogo diplomatico, è stato perentorio: nessuna scadenza artificiale ai tentativi di negoziato, nessun ultimatum, men che meno quello di tre mesi chiesto da Netanyahu nelle scorse settimane . Il presidente Usa si è limitato a dire che gli Usa gradirebbero vedere progressi nel dialogo con Teheran «entro la fine dell’anno». Obama ha quindi riallineato le priorità sul fronte palestinese. Dove da Netanyahu ha incassato solo un generico assenso a iniziare immediatamente colloqui di pace con i palestinesi a patto che riconoscano Israele come Stato ebraico. Un’apertura che comunque Obama vuole venga messa a frutto, tant’è che ha sollecitato israeliani e palestinesi «a cogliere questa opportunità e questo momento» per giungere alla pace. Il cammino sembra però più difficile che mai. E il nodo degli insediamenti, emerso con chiarezza nella giornata di ieri, la dice lunga su quanto ci sia ancora da fare. Netanyahu è partito per Washington mentre i media israeliani, con grande evidenza, diffondevano la notizia che lo Stato ebraico ha deciso di indire una gara di appalto per espandere la colonia di Maskiot in Cisgiordania settentrionale. Altre 20 unità abitative nei Territori occupati. “Musica” per le orecchie delle fasce più oltranziste che Netanyahu si è portato al governo, e alle quali deve molto. Soprattutto in un momento in cui deve fare i conti con le pressioni occidentali affinché faccia concessioni ai palestinesi, dando prova di democrazia. Obama, anche ieri, non ha lasciato margini di dubbi: «Se Israele vuole rispettare gli impegni assunti con la Road map – ha detto al premier israeliano – deve fermare la creazione di nuovi insediamenti». I palestinesi hanno definito la mossa sulla colonia di Maskiot un «messaggio di sfida al presidente Obama». Probabilmente è stato solo un motivo di imbarazzo. Uno dei tanti. Un rapporto di amicizia solido che ha molti strappi da ricucire.