martedì 18 marzo 2014
​Nelle piazze la gente piange di gioia, in pochi dissentono per l’uso ai seggi di urne trasparenti. (Reportage di G. Ferrari)
Chi si brucerà prima? di L. Geninazzi
DIRETTA TWITTER di Giorgio Ferrari
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«Nakonets, vernut’sya domoy! A casa, finalmente si torna a ca­sa! ». Quando l’ultima nota del­l’inno russo si è consumata, quando tutte le bandiere bianche rosse e blu sono state ri­poste, quando si è spento l’ultimo slogan «Ro-ssi-ya!, Ro-ssi-ya!», quando l’ultima bot­tiglia di birra è rotolata tintinnando ai bor­di del marciapiede, quando l’ultimo degli u­craini di Crimea ebbro di gioia e di esalta­zione si è incamminato verso casa e il ven­to gelido della Siberia ha spazzato una Piaz­za Lenin finalmente deserta, una notte po­lare silenziosa e carica di una misteriosa in­quietudine è scesa sulla città. Dopo ses­sant’anni la penisola improvvidamente re­galata da Nikita Kruschev all’Ucraina torna­va alla Madre Russia, riabilitata dopo più di un mezzo secolo in cui Kiev aveva preferito relegare la Repubblica autonoma a depen­dance coloniale, una sorta di Cirenaica sar­matica cui promettere senza mai concedere e della quale mai fidarsi dav­vero. Domenica notte la gente nelle piazze piange­va. Piangeva e danzava, piangeva e rideva in una folle disputa fra la com­mozione e l’orgoglio in­trecciando almeno due a­nime: quella della nostal­gia sovietica che trabocca­va intrattenibile dal cuore dei più anziani, e quella dei giovani, stupefatti e grati al nuovo zar, eccitati come a un derby trionfale, sedotti dalla smagliante novità, in­tossicati e vellicati dalla promessa di un ri­scatto economico, di una paga raddoppia­ta, di una pensione decente, di un costo del­l’energia dimezzato. Tutto questo l’abilissi­mo Vladimir Putin lo aveva messo in conto. Il trionfo abissale del 96,77% dei suffragi (si­curi che non vi siano stati brogli?) gli dà ra­gione, le folle in festa a Sebastopoli, Yalta, Sinferopoli lo confermano. Il capolavoro di Putin è stato quello di inscenare un referen­dum basato sull’intimidazione e la propa­ganda, facendo invadere un lembo di U­craina e reclamando un’annessione in spre­gio ad ogni aspetto del diritto internaziona­le e a trattati dalla stessa Russia sottoscritti. Quasi a dire che uomini e donne della Cri­mea irredenta e filo-russa desiderassero ar­dentemente farsi ingannare e mettersi nel­le sue mani.E non importa se la gelida notte polare, una notte di arrogante luna piena, era già una realtà. Già dal mattino dopo, per tutti, per quel quarto di elettori che non sono andati a votare ma anche per quelli che hanno scel­to l’abbraccio fraterno di Mosca, tutto – in una sola notte – era già cambiato. Le facce dei “volontari”, per cominciare: via i cosac­chi, via la milizia incappucciata, ora per le strade circolano come araldi di una nemesi troppo invocata falangi di uomini insaccati in armature di kevlar, giganteschi scarafag­gi a due zampe, silenziosi e minacciosi in­sieme. E tra breve cambierà l’ora, unifor­mandosi al fuso orario di Mosca e il rublo af­fiancherà la “grivnia” ucraina per seppellir­la definitivamente dal gennaio 2016, l’eser­cito di Kiev nella penisola verrà sciolto, i be­ni di Stato nazionalizzati a cominciare dal­le due aziende energetiche, la Chornomor­naftohaz e la Ukrtransgaz. E poi il fisco, il co­dice penale, la legge bancaria... Del resto un’annessione, avrebbe detto Mao Zedong, non è un pranzo di gala.«Ma le sembra normale depositare una sche­da aperta in un’urna trasparente in un seg­gio intimidito da manipoli di uomini incap­pucciati al suono martellante di inni sovie­tici mentre sventolano bandiere della Fede­razione Russa?», dice un signore infuriato, uno dei pochi che apertamente dissentono. Nel paradosso di un’invasione non dichia­rata ma convalidata da un referendum so­stanzialmente imposto (a dispetto di certe sciocchezze pronunciate da alcuni osserva­tori venuti a monitorare il voto, sulle quali svetta quella del vecchio Mikahil Gorbaciov, che nega perfi­no l’esistenza dei milizia­ni), l’autoconsegna della Crimea nelle braccia della Russia è avvenuta in una sostanziale calma diffusa, senza veri incidenti, come se eventi più grandi e in­domabili dell’umore po­polare, dell’iraconda im­potenza di Kiev e dei suoi gruppuscoli nazionalisti muovessero le ruote della Storia, cui non a caso si richiama il premier della Repubbli­ca autonoma Serghiei Aksionov, assegnan­do al voto di domenica il crisma di una scel­ta epocale. Quale a suo modo di fatto è: per­fino i tatari (grazie verosimilmente a un ac­cordo stipulato nelle scorse ore a Mosca) hanno finito per votare sì. «Non tutti – pun­tualizza Nara, che mi fa da interprete – io so­no tatara e non sono andata a votare...». Sul­le tv russe, le uniche ormai visibili in Crimea, passano da giorni film e documentari sul nazismo e i collaborazionisti ucraini, indi­cati come l’impero del male. Ciò che gli e­stasiati cittadini di Crimea ancora non san­no è che la loro piccola repubblica confi­scata da Putin resta tuttora – fino al 21 mar­zo, per lo meno – una pedina di scambio: per mitigare o neutralizzare l’imminente ac­cordo di partenariato fra Kiev e la Ue, per smussare la spigolosità dei rapporti tra Mo­sca e Washington, per recuperare in parte la già compromessa Unione euroasiatica. «Il peggio – mormora un deputato dagli occhi di ghiaccio nel cortile della Rada, il Parla­mento di Sinferopoli – sarebbe rimanere a mezza via: né annessi né indipendenti». Ser­visse ai suoi scopi, Putin non avrebbe alcu­no scrupolo a lasciarli lì in mezzo al guado, dopo aver finto di liberarli, nella notte pola­re delle loro illusioni.
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