venerdì 24 dicembre 2010
Nove messaggi dalle terre dove professare la fede cristiana è una sfida quotidiana. Nove ceri accesi in segno di speranza e per tenere sveglie le coscienze. Apre la serie Guillermo “Coco” Fariñas (Premio Sakharov 2010) da Cuba. Seguono voci da Nigeria, Belgio, Turchia, Orissa, Cina, Iraq, Iran, Myanmar.
COMMENTA E CONDIVIDI
CUBA Questo è il tredicesimo Natale che ci è concesso celebrare a Santa Clara, da quando il governo ha eliminato il bando per le feste religiose, nel 1997. Prima, per 28 anni, noi credenti l’abbiamo festeggiato nel segreto delle nostre case, dopo il lavoro, dato che si trattava di un giorno feriale. Non potevamo nemmeno andare a Messa: chi vi si recava veniva “schedato” e c’era il rischio di ritorsioni. Di portata variabile, dall’isolamento sociale alla perdita del lavoro. Questo è un Natale speciale per me. Non credevo che avrei potuto viverlo. Il 24 febbraio scorso ho smesso di mangiare e bere. Un gesto estremo per spingere il governo di Raul Castro a liberare 26 detenuti politici malati. Ho digiunato per 185 lunghi giorni. Ero certo di morire. E, invece, sono qui, con mia figlia di 8 anni, Diosangeles, con mia madre, mia moglie Clara. Non ho dubbi: è stato un “miracolo” di Dio: Lui mi ha dato la forza di andare avanti. Lui mi ha fatto continuare a vivere, a dispetto delle ferree leggi della medicina. Da quando sono uscito dall’ospedale, a luglio, ho ripreso ad impegnarmi nell’unica cosa che so fare: scrivere. Racconto, nei miei articoli di giornalista independente, la realtà bella e terribile di quest’isola. Un gesto rivoluzionario per un governo, al potere da 51 anni, che crede di essere depositario dell’unica verità. I fratelli Castro hanno trasformato l’isola nella loro azienda personale. Il libero arbitrio è reato. Questo non è un Natale felice per la mia terra: la gente vive ancora sotto una dittatura. Nonostante la scarcerazione di 41 dissidenti, la repressione prosegue. Anzi, negli ultimi mesi, si è fatta ancora più spietata: le aggressioni contro gli oppositori si sono moltiplicate. Il nuovo corso annunciato dal regime – in occasione del prossimo congresso del Partito comunista di aprile – si risolverà nel solito “cambiamento cosmetico”. Nel 1986, Fidel Castro promise una revisione del sistema. Sperammo in un’apertura. Allora la delusione fu cocente. Ora ci siamo abituati. Sono almeno 40 anni che sentiamo le stesse vane promesse. Eppure ho fede: so che mia figlia conoscerà una Cuba democratica. Forse io non ci sarà allora. Ma almeno avrò dato il mio contributo per realizzarla.

Guillermo “Coco” Fariñas (Premio Sakharov 2010)


NIGERIABuon Natale dal Nord della Nigeria! Anche se il contesto culturale è diverso rispetto all’Italia, anche qui, come altrove, siamo chiamati ad aprirci a questo Mistero di un Dio che si fa Bambino per la nostra felicità. Nella zona della Nigeria dove vivo, nel Nord Est, a differenza di altre aree del Paese dove il cristianesimo è arrivato un po’ prima, l’annuncio cristiano è giunto per la prima volta soltanto 50 o 60 anni fa. Data la povertà della maggior parte della gente dei villaggi, qui non ci sono segni esteriori “natalizi” che, invece, cominciano ad apparire in alcune città e in altre parti della Nigeria. Tra le persone, però, il Natale è comunque fortemente atteso e desiderato. In Nigeria non esiste nessun’altra festa che riesca a catalizzare tanta attenzione. Non c’è cristiano che il giorno di Natale non condivida un piatto di riso o un pezzo di carne non solo con I parenti e gli amici, ma anche con i vicini musulmani o animisti,e non c’è musulmano o animista che, incontrando un cristiano, non gli auguri “Barka da Krismati” (Buon Natale) come segno di partecipazione alla sua gioia. È una cosa che mi colpisce sempre. Mi fa pensare al potere di quel Bambino che, anche se spesso ancora sconosciuto nella sua vera identità, riesce a mettere insieme, almeno per qualche giorno, persone diverse per etnia e religione. I bambini nel mio villaggio aspettano il Natale perché per molti di loro è l’unico giorno in cui possono mangiare un bel piatto di riso e forse ricevere l’unico vestito nuovo dell’anno. La mattina di Natale, dopo la celebrazione in Chiesa, ravvivata da gioiosi canti e danze, i piccoli vanno di casa in casa fino a sera ad augurare a tutti buon Natale con la speranza di ricevere qualcosa in cambio di questo augurio. Con l’inizio del nuovo anno si ritorna alla vita di tutti I giorni, piena di difficoltà, problemi e contraddizioni, ma qualcosa rimane. Resta, anche se fragile e sempre da ricostruire, la consapevolezza che è possibile condividere ciò che si ha anche con chi è diverso per fede o etnia. Un’esperienza importante per le popolazioni del Nord della Nigeria dove, in questi ultimi anni, gruppi diversi hanno cercato e tuttora cercano di distruggere, per interessi egoistici, questo spirito di condivisione reciproca. Il Natale, da noi, cade nella stagione secca: nel Nord le piogge sono terminate alla fine di ottobre e non inizieranno fino al mese di aprile. Tutto è arido. I fiumi dal letto sabbioso si stanno già prosciugando, l’acqua comincia a scarseggiare anche nei pozzi, il caldo del giorno si alterna a nottate più fresche. Spesso, un vento dal deserto, l’harmattan, porta con sé una sabbia finissima che copre, come una nebbia, il cielo normalmente terso e azzurro. In mezzo ai terreni aridi e sabbiosi, tra le sterpaglie, si intravedono qua e là rari cespugli dai fiori rosati. Sono le rose del deserto che spuntano proprio nel periodo natalizio. La loro bellezza appare come una gradita sorpresa in mezzo all’aridità del terreno. Queste rose del deserto sono per me come il segno del Natale nella Nigeria del Nord: uno splendore che emerge dentro una realtà spesso difficile e contraddittoria. La cui luce rimane come segno di speranza per tutti.

Caterina Dolci


BELGIOSono 38 anni che abito e opero in Belgio come missionario a servizio degli italiani emigrati: il mio primo contratto con Migrantes l’avevo firmato per 3 anni, poi ho aggiunto uno zero... Appena arrivato in Belgio, mi sono reso conto che la gente era timida nell’allestire un presepe, anche a casa propria: si faceva più volentieri un albero di Natale, le ghirlande e gli addobbi, ma non il presepe. Di primo acchito ci sono rimasto male, perché per le strade onelle case, non c’era alcun segno della nascita di Cristo nella nostra carne. Certo, si parlava di Babbo Natale, ma di Gesù a Betlemme non v’era ombra. Insomma, si faceva il Natale del mercatino e dei regali ma non quello di Cristo che è venuto sulla terra a salvarci. Ebbene, io sono un francescano, un frate minore ( originario di Ancona: mio padre era minatore qui in Belgio). Ai miei fedeli raccontavo che in Italia durante il periodo natalizio, c’erano presepi da tutte le parti. E mi sono detto: ma è possibile vivere così il Natale, solo all’insegna del consumismo, senza la scena di Gesù che nasce per noi? Allora mi son deciso eho iniziato a raccogliere presepi da tutto il mondo per poi esporli nella chiesa di Tamines, nei sobborghi di Charleroi. Ad oggi ne possiedo quasi un migliaio. Abbiamo inaugurato la prima mostra nel 1994 con 180 presepi; nel 1998 anche la regina Paola è venuta a vedere la nostra chiesa colma di statuine. Quando entrano le persone restano meravigliate, anche perché non conoscevano il presepe. Da alcuni anni, però, in tanti lo costruiscono a casa e i bambini che arrivano qui restano sorpresi e stupiti. Ho appena portato 12 presepi meccanizzati dall’Italia, l’altro giorno c’erano 45 studenti delle medie: avreste dovuto vedere la loro meraviglia. Sono arrivati anche degli anziani degli ospizi dei dintorni. Ogni tanto presto un po’ della mia collezione in giro: nella cattedrale di Bruxelles, a Liegi, a Parigi, nella stessa Charleroi, perfino in Germania. Adesso, dopo tanti anni, sono contento di vedere che il mio messaggio è passato: mostrare cosa è stata la nascita di Gesù tra gli uomini. Usando l’arte e la bellezza di un presepe.

Padre Nicola Iachini, Ofm


TURCHIAQui a Istanbul il Natale non viene celebrato ed è una giornata lavorativa come tutte le altre, ma chi vuole festeggiare non ha problemi. In Turchia infatti il culto diverso da quello musulmano viene concesso, purché non ci siano «intenti di proselitismo», anche se questa affermazione si presta a evidenti strumentalizzazioni. I cattolici che vivono qui si recano sull’Istiklal Caddesi, il viale pedonale principale di Istanbul. La chiesa di Sant’Antonio la sera del 24 è gremita di gente e l’atmosfera attorno a noi è positiva. All’uscita dalla chiesa capita spesso che le persone di fede musulmana ci facciano gli auguri perché sanno che per noi è la festa più importante. Capita anche di trovare addobbi nei negozi che ricordano il Natale, come l’albero o Santa Claus, il cui Paese d’origine secondo la tradizione si trova proprio in Turchia. Chi vive a Istanbul, Smirne e anche a Iskenderun è fortunato, perché in questi posti convivono religioni diverse. In altre zone del Paese invece, come sul Mar Nero o nell’Anatolia profonda, la situazione è più delicata e difficile: anche se siamo in pochi, a qualcuno diamo... fastidio. In Turchia vivono circa 25mila cattolici, di cui 15mila a Istanbul. La vita per noi non è sempre facile. Quest’anno per esempio c’è stato l’assassinio del vicario apostolico dell’Anatolia, il nostro carissimo Luigi Padovese, che ci ha sconvolto profondamente, ma non ci ha fatto perdere la nostra fede e la speranza di un futuro migliore. Anzi, ci conferma nella necessità di una testimonianza di Gesù anche in queste terre.Il governo islamico-moderato al potere con il premier Erdogan ha promesso grandi cose per il 2011, e garantito che sarà un anno di svolta per tutta la Turchia. Possiamo solo sperarlo e pregare perché questo accada veramente.

Fatma Demir


ORISSASono un’insegnante di scuola media e vivo nella parrocchia di Santa Maria a Burla, cittadina inclusa nella diocesi di Sambalpur, nello Stato indiano dell’Orissa. Non ci troviamo nel distretto di Kandhamal, tuttavia abbiamo risentito pesantemente delle tensioni degli ultimi anni. La mia famiglia si è convertita dall’induismo da una casta di commercianti, e al commercio si dedicano ancora i miei parenti, in buona parte emigrati altrove, mentre io sono rimasta a Burla, vicino ai miei genitori con mio marito e le mie due figlie. Al Cristo che sta per nascere non possiamo chiedere altro che pace.Dal Natale 2008, il primo dopo le violenze di certi gruppi indù contro i cristiani del Kandhamal e di altre aree dello Stato, la tensione si è allentata ma non possiamo negare che ci sia ancora insicurezza fra noi cristiani. Forse abbiamo addirittura timore a illuderci che la pace possa diventare una condizione permanente come era prima. Qui convivono molti gruppi diversi: ci sono indù di varie caste ma anche musulmani e buddhisti. La parrocchia, con i suoi 400 cattolici è stata per lungo tempo un luogo di aggregazione, si sono sviluppate iniziative per i più poveri ed emarginati. In questo Natale vogliamo pregare perché torni ad esserlo per tutti, in un cima di fiducia e rispetto reciproci. Ad unirci sarà la messa della Vigilia celebrata in lingua hindi da padre Joe, con alcuni canti e preghiere nella lingua dell’Orissa, l’Oriya, e nelle lingue tribali. E, alla fine del rito, le danze e il cibo in comune.

Sita Sharma


CINAQuest’anno il nostro Natale in Cina è pieno di sofferenza per l’offesa che l’Associazione patriottica (Ap) ha fatto al Santo Padre: in poche settimane hanno ordinato un vescovo senza il permesso del papa e hanno deportato vescovi, preti e fedeli per farli partecipare a un raduno patriottico. L’Ap predica sempre una Chiesa indipendente, ma in realtà la vuole dipendente dal partito e dalla politica. In molte diocesi stiamo pregando per tutti quei vescovi che sono stati umiliati, trascinati a forza a compiere un gesto contro il Papa. Alcuni di loro si sentono così indegni da evitare ogni rapporto coi fedeli. Forse lo scopo dell’Ap è proprio quello di dividere i vescovi dai fedeli, la Chiesa ufficiale da quella sotterranea. Tutta la novena di Natale abbiamo fatto adorazione del Santissimo recitato il rosario per chiedere la forza per i vescovi e per noi. Anche Benedetto XVI ha domandato a tutta la Chiesa universale di pregare per la Chiesa in Cina. L’affetto del Papa per noi ci rincuora e ci spinge a festeggiare comunque il Natale, Dio che si fa vicino alla nostra povertà umana. La notte di Natale le nostre chiese saranno piene, come sempre, traboccanti di giovani non cristiani, curiosi di conoscere cos’è il Natale dei cristiani. Molti di loro, affascinati dalla bellezza dei canti e dei riti, domandano poi di iniziare il catechismo per diventare cristiani. Nelle campagne, molti fedeli percorrono fino a 50-100 chilometri per partecipare alla Messa. Quest’anno, data la tensione, le comunità sotterranee sono molto caute nel preparare la messa e nel comunicare il luogo dove si svolgerà la funzione: c’è il rischio che la polizia blocchi tutto e il prete venga imprigionato. Ma noi non disperiamo: sempre a Natale, ricordiamo i nostri vescovi e i nostri sacerdoti che sono in carcere.

Wang Zhicheng


IRAN«Non sono giorni facili per noi, fedeli protestanti della Chiesa d’Iran. Io vivo in angoscia per la sorte di mio fratello Behrouz, ancora nella prigione di Shiraz, da mesi rinchiuso insieme al nostro pastore Youcef Nadarkhani, già condannato a morte per «apostasia». Il mio amato Paese sta attraversando una situazione difficile e prego affinché l’Iran possa ritrovare la pace e la libertà. Soffro ma mi consolo pensando che Gesù nacque sotto Erode il Grande, il più sanguinoso dei re che governarono la Giudea. E che i momenti più difficili sono i più fecondi per la storia della Chiesa. Nonostante tutto, anche quest’anno trascorreremo insieme il Natale. Ci incontreremo il 25 dicembre, nel pomeriggio, e un predicatore ricorderà la nascita di Nostro Signore. Certo, potrebbe essere pericoloso. Perché il governo vede il Natale come un’occasione di evangelizzazione e la celebrazione della nascita di Gesù, per le autorità religiose locali, è avvertita come una minaccia per l’islam. Basti pensare che, nel 2006, i primi arresti vennero eseguiti vicino al Natale. Per questo, anche, ci è necessario tutto l’aiuto della comunità cristiana nel mondo. È importante che i cristiani dicano chiaramente di essere preoccupati per la sorte dei loro fratelli e delle loro sorelle in Iran. Ahmadinejad si fa beffe dei cristiani d’Iran ma si mostra molto sensibile alle posizioni della comunità estera su questi temi. Fratelli cattolici, aiutateci, in questo tempo d’Avvento, momento di gioia. Non posso fare a meno di ricordare quando celebravamo il Natale senza paure, senza il timore degli arresti. Quando cantavo nel coro. Prima della scomparsa di mio fratello, qualche anno fa, passai davanti a una chiesa armena abbandonata, e chiesi al sagrestano perché le campane non suonavano più. Non dimentico la risposta: «Verrà un giorno in cui tutte le orecchie sentiranno».

Firouz Sadegh Khandjani


IRAQSono un cittadino iracheno, con una bellissima famiglia e un buon lavoro che ci permette di vivere dignitosamente. Sono cresciuto in questo Paese che amo molto, alle cui tradizioni sono molto attaccato, e non ho mai pensato di lasciarlo. Ma negli ultimi anni qui è cambiato tutto. La vita è diventata dura, all’ombra dell’insicurezza e del terrore. Il mio bel Paese è diventato l’angolo più pericoloso al mondo. Quanto succede oggi in Iraq ha lasciato delle ferite profonde e insanabili nel cuore di tutti gli iracheni, in particolare di noi cristiani. Il dramma in corso ci ha costretto a meditare più volte se non fosse il caso di portare la nostra croce e andarcene lontano, in un Paese sconosciuto, totalmente alla deriva. Il massacro che si è consumato di recente all’interno della chiesa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso è ancora presente ai nostri occhi. Ovunque andassimo le immagini dei corpi mutilati di donne e bambini che stavano pregando ci seguirà. Nonostante siano i fondatori dell’antica civiltà di questa nazione, i cristiani vi sono perseguitati, torturati e costretti all’esodo, al punto che vi si sentono come degli estranei. Con l’avvento delle festività natalizie, quale può essere il loro sentimento? Vi rendete conto cosa possa significare temere di andare alla Messa di mezzanotte? Sapete che la maggior parte delle famiglie non se la sente, in questo clima di tristezza che li avvolge, di innalzare un albero di Natale a casa? Che festa può esserci quando il padre è separato dai figli, la moglie dal marito e i figli dai genitori? Che festa può esserci quando la madre ricorda l’assassinio senza pietà di suo bambino tra le sue braccia, e la moglie quello di suo marito? Una cosa tuttavia è sicura. Nessuno potrà mai spegnere la luce di Colui che quando è nato, gli angeli hanno salutato cantando: «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà».

Ziad Yonadam


MYANMARNel Myanmar noi cristiani siamo anche statisticamente un piccolo gregge, l’uno per cento della popolazione. Celebriamo la Santa Messa a mezzanotte, ma altri e poi altri posti aspettano arrivo del loro sacerdote per la Messa di Natale dipende sia mattina di 25 oppure la sera di 25 oppure mattina di 26 dicembre. Chi può prepara un pranzo speciale, ma molte famiglie non possono permetterselo a causa delle condizioni economiche: qui la povertà morde ai fianchi. In verità, chi può invita a casa sua anche i non cristiani, perché Natale è per noi un grande gesto di condivisione della cosa più importante che abbiamo. Un’usanza molto radicata sono i “canti”, che derivano dalla tradizione inglese dei “carol singing”, i canti di Carols che si fanno passando di casa in casa a portare i saluti e gli auguri di Natale. Le famiglie aprono le porte di casa per offrire qualcosa da bere e da mangiare, mentre il gruppo continua a cantare e pregare e chiede la benedizione su quella casa. Questo gesto è apprezzato anche da molti buddisti che molti invitano i gruppi cristiani a cantare e benedire. In verità, da anni questo non è facile da fare a causa delle leggi marziali, che vietano di andare di notte in gruppo per le strade.Questo messaggio preferisco non firmarlo, per motivi di sicurezza.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: