Nella piazza della Mangiatoia, davanti alla Basilica della Natività, il Comune ha sostituito l’albero con un Presepe dedicato a Gaza - Reuters
A colpire è l’assenza, così profondamente presente per parafrasare il poeta Mahmoud Darwish, cantore del dolore palestinese. Lungo Hebron road, la via principale tra Gerusalemme e Betlemme, non c’è una singola decorazione natalizia: niente comete intagliate in legno d’olivo né palle colorate né cuori di agrifoglio. Soprattutto niente luci. Sprofondate, come qualunque accenno di festa, nella voragine della guerra a Gaza. La Palestina è spenta nel buio del lutto. La decisione dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), in accordo con le Chiese cristiane, di rinunciare agli addobbi e limitare il Natale alle celebrazioni religiose è il suo grido muto per gli oltre ventimila morti e 50mila feriti della Striscia. Su Hebron road restano, dunque, solo spartitraffico spogli, la sagoma incombente del muro, venticinque check-point e 32 strade sbarrati dall’esercito israeliano. È così dal 7 ottobre quando, in risposta al massacro di Hamas, la Cisgiordania è stata sigillata e i permessi di transito per i 130mila lavoratori in servizio a Israele sono stati cancellati. Diciassettemila di questi provenivano dall’area di Betlemme. Ora, dal check-point riservato, il “300”, ne passano poche centinaia delle categorie autorizzate: medici, insegnanti, dipendenti delle Chiese. Tutti devono rientrare alle 19. Solo oggi è prevista un’apertura notturna straordinaria per consentire ai cristiani di partecipare alla Messa nella Basilica della Natività. Per il resto, l’unico accesso ancora disponibile è Il-Nashash. Per raggiungerlo occorre un lungo giro intorno al muro. E, al minimo accenno di tensione, viene sprangato senza spiegazioni. Al momento è aperto e non c’è neppure coda.
L’assenza è presente ovunque. In condizioni normali, Betlemme riceve 5mila turisti e pellegrini al giorno. Nel periodo di Natale il triplo o più. Ora sono ventitré: in tutto novembre sono venuti meno di 700, in gran parte dall’Indonesia. «Non è la prima volta che viviamo situazioni anomale. Abbiamo avuto molti conflitti, le Intifada, da ultimo la pandemia. Mai, mai, mai, però, siamo stati tanto sopraffatti da “cancellare” la festa. Non riguarda solo i cristiani che qui rappresentano circa il 18 per cento della popolazione. È parte del Dna di questa cittadina. Tanto piccola – meno di 40mila abitanti – eppure simbolo mondiale del Natale», dice sconsolato Samir Hazboun, portavoce della Camera di commercio cittadina.A Betlemme anche gli islamici sono soliti fare l’albero. Gli abeti agghindati sono una tradizione perfino nel campo profughi Aida, dove ci sono appena 14 famiglie cristiane su 6.200 residenti, ammassati in meno di un chilometro quadrato. Di solito c’è qualche decorazione anche all’entrata, appena dietro la grande porta sormontata da una chiave. «Quelle delle case che i palestinesi hanno perso nella Nakba, l’esodo forzato del 1948 e in cui non hanno mai smesso di voler tornare. “Aida”, del resto, vuol dire “colei che spera di tornare”», spiega Addelfattah Abusrour, direttore del centro culturale Alrowwad, nel cuore del campo. Quest’anno non ci sono alberi nemmeno nelle case dei cristiani. «No, non l’ho fatto. Mio marito è stato operato al cuore ad agosto. Ha dovuto lasciare il posto di imbianchino a Gerusalemme. Con il lasciapassare bloccato e la crisi chissà quando ne troverà un altro», dice Soha, madre di sette figli che, nel frattempo, sopravvive grazie all’aiuto di qualche parente. «Ma anche per loro è difficile», sottolinea.
Il tasso di disoccupazione del campo – già al 60 per cento – è cresciuto ancora negli ultimi mesi: con lo stop ai permessi di lavoro per Israele, altre 50 famiglie si sono ritrovate senza posto. Situato a due chilometri da Aida, è il centro storico, però, a svelare l’agonia della patria di Gesù e di David. «Sei la terza straniera che entra in negozio dall’inizio di dicembre. C’è stato un giordano con la famiglia e un giornalista inglese. Nient’altro. Sono così felice di vederti», esclama Khalil, mentre si affretta a porgere un bicchiere di the alla menta. Sugli scaffali ci sono i Presepi artigianali che la sua e altre cinque famiglie confezionano da 120 anni nel laboratorio adiacente. Sopra si trovano le loro abitazioni. «Solo per questo teniamo aperto», aggiunge indicando la fila di serrande abbassate su Milk Grotto street, la via che costeggia la Basilica della Natività.Di solito, un tripudio di luci affollato di visitatori in questo periodo dell’anno: per attraversarla si è obbligati, a dribblare le comitive rumorose intente a scattare i selfie da pubblicare su Instagram. Ora, nel vuoto, risuona l’eco dei passi sui ciottoli del selciato. Tutto è fermo: le 65 botteghe di souvenir, i 250 atelier degli intagliatori di legno, i 15 ristoranti e 78 hotel distribuiti tra Betlemme e le gemelle di Beit Sohrour e Beit Jala. Seimila dipendenti sono rimasti senza impiego. Con un terzo dell’economia legata al turismo, le perdite – secondo l’Anp – oltrepassano il milione di dollari al giorno. «Doveva essere l’anno della piena ripresa dopo la battuta d’arresto del Covid. Allora è stato duro ma non così. Avevamo trovato dei modi creativi di continuare a lavorare. Ora, però, con il blocco israeliano è impossibile. Ci aspettavamo 2,5 milioni di turisti quest’anno e invece… E la nostra tragedia è nulla a paragone di Gaza – afferma Samir Hazboun –. Siamo annichiliti da così tanta sofferenza». «Con i miei tre figli aspettiamo questi giorni tutto l’anno. Stavolta non mi va di fare niente. Niente riunioni con i parenti né cene con gli amici. Non farò regali nemmeno ai ragazzi. Ci limiteremo a pregare», racconta Elva, impiegata di 40 anni. Luciana, 30 anni, annuisce: «Non ce la faccio neppure a sorridere, figuriamoci a festeggiare».
Il paesaggio desolato di Betlemme è la trasposizione di questo stato d’animo collettivo. Perfino la chiesa che custodisce la mangiatoia dove, secondo i Vangeli, fu adagiato Gesù neonato, è chiusa, data la carenza di pellegrini e fedeli. Riaprirà questa mattina per accogliere la processione guidata dal patriarca, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, accompagnato dall’inviato di papa Francesco, il cardinale Konrad Krajewski. «Siamo grati della loro presenza fra le macerie di questo Natale – dice il sindaco, Hanna Hanania –. C’è morte ovunque. Nella Striscia, ma anche qui. Betlemme sta morendo strangolata dalla stretta israeliana che ci impedisce ogni libertà di movimento. Ogni notte, ci sono raid militari in tutta la Cisgiordania, migliaia sono stati arrestati, 55 sono stati uccisi. Morte, distruzione, macerie, è ormai la nostra realtà».
“Natale sotto le macerie” è il tema della veglia di questa mattina in solidarietà con Gaza a Manjar square, piazza della Mangiatoia, appunto. Palestinesi di ogni fede si riuniranno intorno al Presepe che ha sostituito l’enorme albero allestito dal 1994. La scultura, realizzata dall’artista cristiano Tariq Salsa, mostra Gesù Bambino in braccio a Maria fra le rovine di una casa. Giuseppe la abbraccia per consolarla di fronte all’imminente fuga in Egitto per sfuggire alla furia omicida di Erode. Il riferimento ai bimbi di Gaza non è puramente casuale. «Il Signore è nato fra e per i perseguitati, gli oppressi, le vittime della violenza. Se nascesse ora non mi stupirebbe se scegliesse Gaza», afferma il pastore presbiteriano Danny Awad che, nella chiesa di Baraka, a Betlemme, ha preparato un Presepe simile: Gesù fra le macerie, avvolto nella kefiah, il panno bianco e nero che richiama le reti dei pescatori, simbolo da tempo immemorabile della tradizione palestinese. «Il primo a farlo è stato il reverendo Munther Isaac della chiesa evangelica luterana qui vicino – aggiunge il pastore Danny, il quale ha perso un cugino a Gaza, nel raid sulla chiesa ortodossa di San Porfirio del 20 ottobre, ucciso insieme ad altri 17 sfollati ospitati nel tempio –. Il suo gesto ha ispirato tanti». Anche a Ramallah – dove la comunità cristiana è numerosa – ci sono rappresentazioni analoghe. Fra le macerie o nella consueta capanna, il Presepe è, più che mai, simbolo di questo Natale di guerra in Terra Santa. Nell’assenza avvolgente – di luci, di decorazioni, di mercatini – è l’unica traccia di festa presente nelle case dei cristiani di Palestina. E nelle sue chiese. Perfino nella parrocchia della Sacra Famiglia della Striscia dove è stata creata una grotta di cartapesta sotto l’altare. Da 79 giorni, la chiesa dà rifugio a quasi 600 persone. Due, Nahida e Samar, sono state colpite a morte da un cecchino, il 16 dicembre. «Le conoscevo. Molti a Betlemme hanno amici a Gaza – conclude Mariam –. Oggi le ricorderò davanti al Presepe. Gesù, a differenza del mondo, non ci abbandona: Lui sta con chi soffre, per questo mai come ora lo sentiamo vicino. Stanotte, di nuovo, torna a nascere fra di noi».