Due giorni fa sono andato a Betlemme per celebrare, come di consuetudine, il Natale assieme ai bambini e ragazzi della “Casa del Fanciullo”. È un appuntamento annuale al quale tengo particolarmente per due motivi: il primo perché questa casa gestita dalla Custodia di Terra Santa cerca di dare il calore di una famiglia ai bambini e ragazzi della nostra comunità di Betlemme che non hanno famiglia o hanno una famiglia fragile, il secondo motivo è perché Betlemme è legata di natura sua al mistero del Dio che si incarna, che si fa bambino e chiede di essere accolto nei piccoli.
Quest’anno c’era un motivo in più per andare a celebrare alla “Casa del Fanciullo” e quel motivo è dato dal contesto di guerra nel quale ci troviamo a vivere il Natale in Terra Santa. Un contesto di guerra che tocca prima di tutto Gaza, luogo che sta diventando simbolo di distruzione, ma tocca anche tutta la Cisgiordania, e pure la “piccola” Betlemme che si trova intrappolata, quasi isolata, senza pellegrini e senza risorse. Tocca anche Israele, dove si respira un clima di rabbia e di angoscia, di odio e sete di vendetta, di rassegnazione e di paura.
È in questo contesto che parliamo di Natale e di Pace. È in questo contesto – soprattutto – che abbiamo bisogno di pace.
Per dirla con le parole di Quasimodo, in una sua poesia dedicata al Presepe, dopo aver constatato la pace che regna sulle statuine di legno dipinto aggiunge: «Ma non c’è pace nel cuore dell’uomo». Se associamo il Natale alla pace non è perché siamo in pace, ma perché la pace ci manca e ci accorgiamo che ne abbiamo terribilmente bisogno, a partire dalla singola persona. A un collaboratore, che dopo il 7 di ottobre è corroso interiormente dal desiderio di vendetta, dopo averlo a lungo ascoltato e dopo aver cercato di comprendere le sue ragioni, mi sono sentito in dovere di dire: «Attento, l’odio e il desiderio di vendetta sono un cancro dell’anima, ti distruggono dentro».
La pace che ci manca a livello personale ci manca anche a livello collettivo e globale. Anche in questo caso occorre cambiare prospettiva e sguardo. Bisogna rompere la campana di vetro che ci tiene imprigionati dentro l’esperienza della nostra personale sofferenza e produce rancore, odio e sete di vendetta, per accorgerci della sofferenza dell’altro e trasformare la sofferenza personale in capacità di empatia. Ce lo insegna la signora Rachel Goldberg Polin, portavoce delle famiglie degli ostaggi rapiti da Hamas il 7 ottobre in una intervista rilasciata l’11 novembre scorso a Roberto Cetera sull’”Osservatore Romano”. Alla domanda se per evitare un altro 7 ottobre sia sufficiente l’attuale soluzione militare risponde in modo molto chiaro: «No. Non basta. Perché Hamas non è solo un gruppo terrorista, è un’idea, un’idea sbagliata certo, ma le idee non si eliminano con le armi. Occorre un grande piano di riconciliazione.
Come avvenne in Sudafrica.
Occorre condividere i rispettivi dolori. Loro (i palestinesi) devono rispettare e condividere il nostro dolore, e noi (israeliani) il loro. Ci vorrà del tempo, ma occorre provarci, altrimenti l’odio continuerà ad essere la soluzione più semplice, e sarebbe la fine per tutti in questa terra».
La pace del Natale ha questa radice, è frutto dell’empatia di Dio nei nostri confronti: un Dio che non solo riconosce la nostra sofferenza, ma sceglie liberamente di farla propria incarnandosi, facendosi uno di noi. Come ha scritto un altro grande poeta del ‘900, Giuseppe Ungaretti, l’evento del Natale è il mistero di un Dio che sceglie di redimere l’uomo dal male causato dall’uomo stesso, incarnandosi nelle tenebre umane e riedificando umanamente l’uomo attraverso la propria sofferenza:
Fa piaga nel Tuo cuore / La somma del dolore / Che va spargendo sulla terra l’uomo; / Il Tuo cuore è la sede appassionata / Dell’amore non vano. / Cristo, pensoso palpito, / Astro incarnato nell’umane tenebre, / Fratello che t’immoli / Perennemente per riedificare / Umanamente l’uomo, / Santo, Santo che soffri, / Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli, / Santo, Santo che soffri / Per liberare dalla morte i morti / E sorreggere noi infelici vivi, / D’un pianto solo mio non piango più, / Ecco, Ti chiamo, Santo, / Santo, Santo che soffri (Ungaretti, Mio fiume anche tu).
La pace del Natale non ha i colori ovattati della pubblicità del “Mulino Bianco”, la pace del Natale ha il colore rosso del sangue del Figlio di Dio che ha scelto di farsi uno di noi, di condividere tutta la nostra umana natura ed esistenza e di riedificarci umanamente al prezzo della sua stessa vita: per portare pace nel cuore dell’uomo attraverso il dono del perdono; per portare pace tra gli uomini distruggendo l’inimicizia attraverso il dono della riconciliazione; per portare pace tra l’uomo e il creato del cui rinnovamento si è fatto carico; per portare pace tra l’uomo e Dio dal momento che Dio in Gesù Cristo suo Figlio ha scelto di vivere l’esistenza umana per donare all’uomo la vita divina.
Francesco Patton è Custode di Terra Santa