mercoledì 10 novembre 2010
È iniziato il rientro di migliaia di birmani, in maggioranza di etnia karen, costretti a rifugiarsi in Thailandia per i combattimenti di lunedì tra i filo-governativi e i ribelli. Una trentina i morti secondo fonti dell’opposizione, tre in base alle cifre ufficiali. Gli incidenti in altre aree del Paese spingono alla fuga centinaia di cittadini.
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È iniziato ieri pomeriggio il rientro dei birmani, in maggioranza di etnia karen, costretti a rifugiarsi in Thailandia dagli scontro di lunedì tra esercito birmano e miliziani ribelli. Il consistente flusso di ritorno di 25-30mila profughi, accolti in campi di fortuna predisposti dall’esercito thailandese, si è incrociato con uno minore di nuovi fuggiaschi. Nella mattinata di ieri i reparti combinati della Brigata 99 dell’Esercito buddhista democratico karen – che si è integrata nell’esercito governativo – e dell’esercito birmano erano riusciti a riprendere buona parte del centro abitato di Myawaddy. Una trentina i morti in città, per fonti dell’opposizione, tre secondo quelle ufficiali, oltre a diversi feriti a cui vanno aggiunti la decina in territorio thailandese, colpiti da proiettili vaganti e dall’esplosione di una granata caduta oltreconfine. Nonostante notizie di sporadici scontri nei dintorni di Myawaddy, al centro del conflitto di domenica e lunedì, a spingere ancora alla fuga centinaia di birmani oltre una frontiera sigillata da tre mesi dal regime erano le notizie che arrivavano da aree più lontane, da Pyaduangsu, pure prossima al confine, e da altre località e, soprattutto, dal Passo delle tre pagode, dove i guerriglieri della Brigata 5 dell’Esercito buddhista democratico karen guidata dal colonnello Saw Lah Pwe e sostenuti dalle più consistenti milizie cristiane dell’Unione nazionale karen, per tutta la giornata di ieri hanno continuato a impegnare le truppe governative. A questo si sono aggiunte le informazioni sui movimenti di truppe che vanno affluendo nello Stato karen e in altre aree dove le minoranze continuano ad affidare a un territorio loro favorevole e a milizie ridotte nel numero ma assai efficienti la loro stessa sopravvivenza.La battaglia per Myawaddy, era stata attivata domenica pomeriggio dall’occupazione di alcuni edifici pubblici da parte dei miliziani della Brigata 5. Un’azione dimostrativa tesa a tastare la capacità di reazione del regime in un momento delicato e a ribadire la non disponibilità dei gruppi che da sempre si battono per una consistente autonomia ad una resa delle armi che aprirebbe le porte a un’assimilazione violenta. Davanti anche un palcoscenico mediatico aperto sul voto-farsa che, coinvolgendo la vicina Thailandia, ha garantito maggiore visibilità internazionale all’azione dei ribelli. Come ha ribadito ieri all’agenzia Fides un sacerdote di etnia karen nell’area di confine fra Thailandia e Myanmar: «I gruppi karen contestano le elezioni e sono insoddisfatti del potere birmano. Temiamo ora un aumento della violenza e del conflitto. A soffrire saranno soprattutto i civili. La lotta armata dura da decenni. Occorre trovare, con l’ausilio della comunità internazionale un altro modo per gestire questa crisi. Le speranza sono ridotte al lumicino ma continuiamo a pregare per una soluzione pacifica». Intanto, come da settimane, le organizzazioni attive per i profughi al confine thai-birmano, anche Ong cattoliche si preparano a un afflusso massiccio di profughi che potrebbe essere attivato da una guerra senza quartiere che molti considerano inevitabile. «Eravamo preparati a questa evenienza – dice padre Bernard Arputhasamy, Direttore regionale del Jesuit Refugees Service Asia-Pacifico di ritorno da una missione al confine con il Myanmar –. In queste ore l’emergenza viene gestita efficacemente attraverso uno sforzo congiunto fra il governo thailandese, l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati e un gruppo di Ong fra le quali il Jesuit Refugees Service». Anche la Chiesa locale, attraverso iniziative di scuole e parrocchia vicine al confine, è intervenuta per portare un qualche sollevo ai birmani in fuga.«Il problema delle minoranze etniche in Myanmar è molto complesso – dice padre Arputhasamy – e ha le radici in anni precedenti all’indipendenza del Paese. Molti gruppi, come karen, shan, kachin vogliono l’indipendenza, ma ogni gruppo è diviso al suo interno, non ha una posizione univoca. In ogni caso, è il regime birmano a tenere e garantire, anche con la forza, l’unità territoriale. Se un domani il regime dovesse collassare, il Myanmar finirebbe come i Balcani o l’Iraq».Ieri il primo ministro thailandese Abhisit Vejjajva ha avvisato che sulle frontiere con il Myanmar l’attenzione sarà elevata per almeno tre mesi. Allo stesso tempo le autorità di Bangkok hanno escluso di volere ampliare i campi già presenti lungo i confini o di essere intenzionate a riconoscere la qualifica di profughi ai futuri fuggiaschi.
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