Se non fosse per i pannelli che ricordano uno dei primi tragici tentativi di fuga dalla Germania comunista, farei fatica a ritrovare l’ex passaggio di confine ad Invalidenstrasse, a poche centinaia di metri dal Reichstag che oggi ospita il parlamento tedesco sotto una grande cupola di cristallo. Fu qui che in mezzo ad una folla festante varcò il Muro, sulle spalle del padre. Rivedo ancora gli occhioni azzurri di quel bimbo. Oltrepassato il posto di guardia alzò lo sguardo verso il cielo come se all’Ovest avesse un colore diverso da quello plumbeo e grigio dell’Est. Una scena degna di un film di Fassbinder, un’immagine che più di ogni altra mi si è fissata nella memoria il giorno che crollò la Bastiglia rossa e ne uscirono i prigionieri di un regime dispotico e assurdo. Era il 1989, l’anno in cui il vento della libertà soffiava impetuoso. Ma nessuno s’immaginava che avrebbe buttato giù il muro della vergogna. Ore venti di giovedì 9 novembre. Squilla il telefono, dall’altra parte del filo Giuliano Ragno, il nostro compianto vice-direttore che all’epoca era responsabile degli esteri. «Hanno appena annunciato che la Ddr apre le frontiere – grida con voce concitata –. È come se fosse caduto il Muro!». I dispacci d’agenzia non erano molto chiari, parlavano di nuove disposizioni in materia di viaggi all’estero e di liberalizzazione dei visti d’uscita per i cittadini della Germania comunista. Ma Giuliano era uno che la notizia l’afferrava al volo: «Il Muro non c’è più, corri subito a Berlino!». Il mattino dopo ero lì, taccuino in mano e cuore gonfio d’emozione. I mattoni e le lastre di cemento non erano spariti, così come il filo spinato, i cavalli di Frisia e le mine anti-uomo che da ventotto anni costituivano l’oscena barriera di separazione tra le due Germanie. Ma nel volgere di una notte erano diventati lugubri residui del passato, una sorta d’illusione ottica, inutile fondale per un teatro dell’orrore che non si recita più. Va in scena un altro spettacolo, incredibile e pazzesco, «Wahnsinn», come dicono i tedeschi. Mi ritrovo circondato da una marea umana impressionante che si riversa oltre il Muro e inonda Berlino Ovest. Già nelle settimane precedenti 200mila tedeschi orientali erano fuggiti in Occidente attraverso l’Ungheria, un Paese formalmente socialista che aveva deciso d’aprire le sue frontiere con l’Austria. Contro il rigido comunismo prussiano si poteva solo «votare coi piedi», cioè scappare. Il 18 ottobre Erich Honecker, già capomastro del Muro e quindi dittatore incontrastato della Ddr, aveva dato le dimissioni. Gli era succeduto lo sfortunato Egon Krenz che affrontava col suo sorriso equino l’onda montante della protesta, mentre la grande fuga non accennava a diminuire. E nel tentativo di frenare il malcontento popolare il regime si decide a varare disposizioni meno restrittive per i viaggi all’estero. La sera del 9 novembre, dopo che si è diffusa la notizia della nuove modalità d’espatrio «senza motivi particolari», molti cittadini della Ddr si recano ai pochi punti di valico sotto gli sguardi increduli e stupefatti dei Vopos, le terribili guardie di frontiera educate allo Schiessbefehl, l’ordine di sparare a vista su chiunque tenti di saltare il Muro. Adesso però non sanno come comportarsi, chiedono istruzioni ma ricevono solo ordini confusi e contraddittori. Cresce il nervosismo e così c’è chi decide d’alzare la sbarra permettendo alla gente di passare. Gli storici stanno ancora litigando su quale fu il primo posto di controllo dove venne aperta la frontiera più blindata d’Europa. Alla Bornholmer Strasse, poco prima di mezzanotte, si è sempre pensato (e sarà qui infatti che avranno luogo le celebrazioni del ventennale). No, il Muro cadde già alle otto e mezzo, alla Waltersdorfer Chaussée, all’estrema periferia sud-orientale della città, sostengono altri. Il dibattito conferma che l’evento più importante della storia del dopoguerra avvenne in modo del tutto imprevisto e casuale. Dalle finestre della sua residenza in Unter den Linden, il viale centrale di Berlino est, l’ambasciatore sovietico assiste, impotente e frastornato, al passaggio di migliaia di persone che si dirigono verso la Porta di Brandeburgo. Negli stessi minuti a Bonn, nell’ufficio della Cancelleria, il consigliere Eduard Ackermann chiama al telefono Helmut Kohl che si trova a Varsavia per una visita di Stato. «Continuava a chiedermi se fosse proprio vero quello che gli riferivo», ricorda Ackermann. C’è davvero di che stropicciarsi gli occhi davanti a quello che sta accadendo. Venerdì 10 novembre Berlino si risveglia sotto un tiepido sole autunnale scoprendosi pacificamente invasa da una folla ubriaca di felicità. Famiglie intere, giovani a coppie o in gruppo, scolaresche al completo, in autobus, in macchina o in bicicletta, qualcuno perfino a piedi, tutti vogliono assaggiare il frutto finora proibito della libertà. C’è chi piange per la commozione e chi alza le dita in segno di vittoria mentre oltrepassa il Muro, finalmente visto da vicino e dalla parte migliore. Ai valichi vengono salutati con applausi scroscianti dai berlinesi occidentali che in segno di benvenuto offrono fiori alle donne e boccali di birra schiumante agli uomini. La fredda e opulenta Berlino sprizza di gioia sincera mentre abbraccia calorosamente i cugini poveri dell’Est. Impossibile muoversi in città bloccata da ingorghi paurosi, con le rumorose e puzzolenti Trabant (l’auto col motore a due tempi simbolo della Ddr) che s’infilano tra Mercedes e Bmw.«È il caos più meraviglioso che avremmo potuto sognare – titola la Bild Zeitung –. Ringraziamo Dio». Sulla Ku-damm, la via elegante del centro, ho visto una Trabant tamponare una grossa Mercedes. Ne scende un signore distinto e cosa fa? Abbraccia il malcapitato che gli è andato addosso: «Non è niente», dice ridendo. Si sentono un po’ come dei marziani i cittadini dell’Est, approdati su un altro pianeta. «Ma qui è tutto colorato!» mi dice un ragazzo con gli occhi spiritati. Molti si fermano col naso schiacciato contro le vetrine, tutti fanno la fila davanti alle banche dove ricevono cento marchi a testa, la somma di benvenuto che la Bundesrepublik regala ai tedeschi della Ddr. C’è chi si precipita alla KaDeWe, mitico centro commerciale d’inizio Novecento, per comprarsi l’agognato paio di jeans. E c’è chi entra alla Gedachtniskirche, la chiesa ricostruita sulle rovine della seconda guerra mondiale, per ammirare le vetrate e dire una preghiera. Ma il culmine della festa è alla Porta di Brandeburgo, lungo il Muro preso d’assalto da migliaia di persone. Con picconi, scalpelli, persino a mani nude, cercano di portarsi via un souvenir di quello che ormai è un innocuo monumento alla guerra fredda. Balli, canti, brindisi e abbracci. È ormai notte fonda, vorrei andare a riposare ma ci rinuncio: l’hotel è lontano, il traffico è in tilt, le stazioni del metrò sono più affollate di uno stadio e di taxi neanche l’ombra. La festa durerà fino a domenica, un magico week end che non potrò mai dimenticare. Per tre giorni e tre notti Berlino, «callo sul piede americano da pestare a piacere», secondo la sprezzante definizione di Krusciov, è diventata l’ombelico di un mondo nuovo. Dopo le prime titubanze Kohl marcia deciso verso la riunificazione delle due Germanie. La Storia si è messa a correre e nessuno riuscirà più a fermarla.