Fino alla fine degli anni 90 lo sminamento era una corsa contro il tempo. Finché l’entrata in vigore del trattato antimine non ha riaperto la partita per i cacciatori di mine e munizioni inesplose. «Per piantare una mina servono circa 15-30 minuti e ne servono circa 30-45 per rimuoverla», ha spiega ad
Avvenire l’ingegnere Alfieri Fontana, un esperto che lavora per l’organizzazione no-profit italiana Intersos. Sfortunatamente, però, il più delle volte gli sminatori non sanno dove si trovano gli ordigni da smaltire. Il che richiede tempo e soldi. «Mediamente in tutto il mondo 1 metro quadro costa 1 euro, fra tempi di ricerca e di sminamento». Le mine sono trappole ideate per esplodere quando una persona o un veicolo vi passa sopra. Impediscono ai contadini di coltivare la terra, agli animali di pascolare. Bloccano strade e sbarrano l’accesso a scuole e ospedali. Il metodo più comune per bonificare un terreno minato resta quello manuale, anche se animali e macchine svolgono un ruolo sempre più importante. «In Paesi desertici come il Tagikistan o il Sudan si fa grande uso di mezzi meccanici, ma, laddove il terreno comincia a inclinarsi un po’ o c’è vegetazione molto fitta, il mezzo meccanico comincia a soffrire», racconta l’ingegnere italiano. Spesso gli sminatori si avvalgono dell’aiuto di cani addestrati a fiutare l’odore delle mine, anche se questi non riescono a lavorare più di 1-2 ore al giorno. I cani sono molto utili nell’individuare l’area pericolosa, ma non nel localizzare esattamente le mine. Poi deve intervenire l’uomo. Per certi aspetti il mestiere del cacciatore di mine non è cambiato molto dalla Seconda guerra mondiale. Cammina lungo un corridoio largo circa un metro, metal detector in mano. Quando sente il segnale, si ferma e scava per verificare di cosa si tratta. Nella maggior parte dei casi, trova chiodi, lattine o altri innocui frammenti di metallo. Un lavoro certosino che viene ripetuto migliaia di volte al giorno in tutto il mondo. I ferri del mestiere sono sempre gli stessi, anche se col tempo sono diventati più piccoli, più maneggevoli e più affidabili. Inoltre gli sminatori di oggi possono usufruire del Sistema di posizionamento globale (Gps) e del Sistema di informazione geografica (Gis) per mappare le aree minate. Senza contare l’avvento di nuove tecnologie come i radar in grado di svelare i segreti del sottosuolo. «Non cerchiamo più un’unica tecnologia per trovare tutte le mine, ma cerchiamo di vedere come diverse tecnologie possono integrarsi a vicenda», precisa Erik Tollefsen, esperto del Centro internazionale di Ginevra per lo sminamento umanitario (Gichd), che è una delle principali organizzazioni attive nel settore. Ad esempio, i nuovi metal detector sono più sensibili e sofisticati. Ma sono anche più soggetti a falsi allarmi. Qualcosa è cambiato anche nell’approccio stesso al problema. «Lo scopo dello sminamento non è togliere tutte le mine, è mettere completamente in sicurezza le persone», sottolinea Fontana, spiegando che ogni anno in Italia si effettuano 3mila interventi di disinnesco di ordigni della Seconda guerra mondiale. «Eppure, nessuno si sogna di dire che la bonifica in Italia è un problema».Inventate durante la Guerra civile americana, le mine sono state impiegate su larga scala dalla Seconda guerra mondiale in avanti, passando per Vietnam e Corea. La storia dello sminamento umanitario, invece, è più recente: risale alla fine del 1988, quando per la prima volta le Nazioni unite lanciarono un appello per raccogliere fondi da destinare a programmi in Afghanistan. «Lavoro in questo campo da diversi anni: ho iniziato nel sud del Libano nel 1991 e sono stato in Bosnia Erzegovina nel 1992-93», riferisce ad
Avvenire Tollefsen. «Allora lo sminamento era un lavoro di Sisifo: nonostante i nostri sforzi, le mine che riuscivamo ad eliminare erano meno di quelle che venivano disseminate. La situazione è cambiata alla fine degli anni 90, con l’entrata in vigore del Trattato per la messa al bando: in quel momento abbiamo capito che la lotta contro le mine poteva essere vinta». È grazie alla campagna lanciata nel 1992 da sei organizzazioni non-governative che nel giro di pochi anni 156 Paesi hanno aderito alla Convenzione che proibisce l’uso, lo stoccaggio, la produzione delle mine e ne impone la distruzione. Firmato a Ottawa, in Canada, nel 1997 il trattato antimine è entrato in vigore l’1 marzo 1999. Sono ancora 39 i Paesi che non hanno sottoscritto l’iniziativa, tra questi Stati Uniti, Russia, Cina e India. Alla vigilia della seconda conferenza di revisione del trattato, svoltasi in questi giorni a Cartagena, il Dipartimento di Stato americano ha fatto sapere che il presidente Obama non firmerà il Trattato. Washington non vuole avere le mani legate, ma rispetta la sostanza del trattato: ha smesso di usare mine, di esportarle e di produrle. Secondo l’Icbl, tra il 1999 e il 2008 più di 73.576 persone sono rimaste coinvolte in incidenti causati da mine o munizioni inesplose: 17.867 sono rimaste uccise e 51.711 ferite.