mercoledì 12 giugno 2013
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L’industria della pesca thailandese è una delle più lucrose al mondo, al terzo posto per valore. Il “Paese del Sorriso” inonda i mercati globali, ma il prezzo da pagare per chi lavora nel settore è spesso impensabile. In mare aperto, infatti gli abusi sono ancora meno visibili. Come denuncia la Ong statunitense World Vision nel suo rapporto dello scorso anno, «omicidi e tortura sono frequenti in modo allarmante. Chi riesce a fuggire denuncia le costanti minacce, il pericolo di essere ucciso; il rischio quotidiano di essere accoltellato, picchiato, buttato fuoribordo. Al punto che molti preferiscono rischiare e cercano la salvezza gettandosi in mare». Fatti confermati dal rapporto “Sold to the Sea” (Venduti al mare) appena diffuso dalla britannica “Environmental Justice Foundation”, secondo cui il 59 per cento di quanti sono stati imbarcati su un peschereccio thailandese e si sono “liberati”, sono stati testimoni dell’uccisione di loro compagni. La crescente scarsità di manodopera rischia di rendere meno lucroso il business, ed ecco che armatori e capitani senza scrupoli ricorrono ad aggressioni e rapimenti, utilizzando narcotici e cloroformio per trovare nuove reclute da imbarcare, possibilmente giovani e possibilmente straniere. Ad attenderle, mesi o addirittura anni senza toccare terra, con turni di 20 ore al giorno, a volte senza salario e con cibo e acqua appena sufficiente a sopravvivere. Un quadro drammatico che interessa i 200mila immigrati (illegali in buona parte) che si stima siano impiegati sui pescherecci thailandesi. Con un’alta percentuale di giovanissimi. Minorenni birmani, laotiani, cambogiani, vietnamiti cooptati per alimentare un’industria ittica che sbaraglia la concorrenza per la sua convenienza nell’indifferenza del mondo. Da non molto anche l’Unione Europa sembra essersi accorta del fenomeno e ha aperto accertamenti in proposito. In realtà, soprattutto in tempi recenti, in modo crescente il governo di Bangkok è sotto pressione per rimediare a una serie notevole di eccezioni alla sua adesione a trattati, convenzioni, accordi bi e multi-laterali finora ignorati contando sul disinteresse o, a volte, sul prevalere di interessi economici.Molto del successo economico thailandese, finanziato da ingenti investimenti esteri, si deve all’uso estensivo di manodopera immigrata e irregolare. Secondo il rapporto del United Nations Office on Drugs and Crime (Unodc, Ufficio delle Nazioni Unite per la droga e la criminalità) diffuso lo scorso aprile, la Thailandia resta il maggiore “mercato” di migranti vittima di tratta e di traffico, con forse due milioni di stranieri impiegati illegalmente.
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