La buona notizia è che diminuiscono le guerre. La pessima è che aumenta, a dismisura, il numero delle vittime. Eccolo il controverso quadro che scaturisce dall’indagine The armed conflict survey del britannico Istituto internazionale per gli studi strategici (Iiss). Addirittura il numero dei morti causato dalle guerre nel mondo è cresciuto del 60 per cento negli ultimi due anni: sono stati 180mila nel 2014, contro i 110mila del 2012.Gli episodi di conflitto sono invece diminuiti, passando dai 63 del 2008 ai 42 dell’anno scorso. Un’inversione di tendenza dovuta al fatto che alcuni Paesi a rischio guerra civile come Colombia e Filippine sembrano sulla buona strada per raggiungere risoluzioni pacifiche. Anche se il numero di conflitti è diminuito, i combattimenti sono però più violenti e avvengono spesso in aree urbane. Nella sola Siria l’ultimo anno ha visto morire 70mila persone (200mila da inizio conflitto nel 2011). Più in generale, lo studio dell’Iiss sottolinea che l’aumento delle vittime è causato dalla «inesorabile crescita d’intensità della violenza», guidata dalle guerre jihadiste nel mondo arabo, compresi gli attacchi dello Stato islamico (Is) a insediamenti come Mosul e Tikrit.Secondo Nigel Inkster, direttore degli Studi sulle minacce internazionali e rischio politico dell’Iiss, il problema più grave è che «i conflitti avvengono sempre più spesso dentro le città, e per definizione favoriscono quindi un maggior numero di perdite civili». Gli analisti ribadiscono peraltro che l’impatto di un conflitto non può essere semplicemente giudicato dal numero dei morti e dei feriti. Altri indicatori, come il bilancio degli sfollati, vanno presi in considerazione. Solo il conflitto siriano ha causato 3,4 milioni di profughi, 1,4 milioni nell’ultimo anno.E a questo proposito va notato che l’Alto commissariato Onu per i rifugiati ha osservato che il 2013 è stato il primo anno in cui il numero globale degli sfollati ha oltrepassato quota 50 milioni. Sono i civili a continuare a pagar il prezzo dei conflitti, sia in termine di fuga dai territori di origine sia come impatto su aspetti quali l’educazione, la salute, le mancate opportunità di sviluppo economico, che minano anche le generazioni future. Secondo Banca mondiale, addirittura, sono più di 1,5 miliardi nel mondo – un quinto di tutta l’umanità – le persone coinvolte da qualche forma di violenza o insicurezza.Dopo la Siria, il Paese dove sono morte più persone nel 2014 è l’Iraq (18mila), terzo il Messico con gli scontri tra bande rivali (15mila). In Afghanistan ci sono state 7.500 vittime; in Ucraina (prima guerra in Europa dal 2008) 4.500. Il conflitto Israele-Palestina ha raggiunto i suoi livelli di mortalità più alti dalla guerra dei Sei giorni del 1967. Dopo il collasso del processo di pace nell’aprile dello scorso anno, a giugno una nuova escalation ha portato all’avvio dell’Operazione margine protettivo, che ha causato molte vittime ed è stata seguita da un aumento degli attacchi dei miliziani in Cisgiordania e a Gerusalemme. La Repubblica democratica del Congo, dove ancora operano ben 54 gruppi armati soprattutto nelle regioni orientali, ha visto invece ridursi i livelli di violenza rispetto al 2013. Nonostante questo, restano nella condizione di profughi ben 3 milioni di persone, metà delle quali bambini.Davanti a questi dati, Nigel Inkster afferma che «il ritratto del 2014 è contrastante, perché ci sono promettenti segni di speranza di miglioramento, anche se i livelli di violenza rimangono alti». Si conferma, comunque, quel panorama di «terza guerra mondiale a pezzi» di cui ha parlato un anno fa il Papa denunciando «un livello di crudeltà spaventosa» di cui spesso sono vittime civili inermi, donne e bambini.Questi ultimi hanno spesso come unica ancora di salvataggio gli aiuti umanitari, che nel 2014, secondo il rapporto dell’Iiss, sono stati per lo più efficaci, anche se le limitazioni di accesso ad alcuni territori, le intimidazioni dei regimi e i vincoli legati alle risorse limitate hanno comunque avuto un impatto negativo sull’intervento degli operatori. Segnali incoraggianti, segnalano gli esperti, sono venuti da alcune regioni come l’Africa sub-sahariana, dove le potenze regionali sono sembrate più disposte e in grado di esercitare un’influenza decisiva nell’attenuazione dei conflitti. È invece a livelli bassi l’intervento umanitario dei Paesi occidentali «e resta da vedere se migliori condizioni economiche e un progressivo allontanamento dai ricordi degli interventi in Afghanistan e Iraq si tradurrà in maggiore entusiasmo per questo tipo di operazioni». O se, a scoprire più entusiasmo per tali interventi, saranno le nuove potenze emergenti a livello globale, consce che oggi agire in alcuni contesti in ambito umanitario equivale anche ad accrescere la propria influenza a livello politico.