Il mercato della cittadina di Beni Mellal, conosciuta come la "capitale delle arance"
Quelle non sono le Alpi e lungo l’autostrada non incontri una città. Neanche un paesino. Campi, serre e frutteti: sembra di arrivare a Cremona. Pian piano, invece, dalla foschia emerge il profilo dell’Atlante. I nonni di Salah Lonazi sono scesi da quelle montagne per venire in città. E lui ha rilanciato: in barca per l’Italia, via Spagna; è tornato a casa più povero di prima, perché la storia della vita non ha sempre un lieto fine. Ora fa il parcheggiatore, ma molti altri emigranti hanno investito piccole fortune. Proprio qui a Beni Mellal, provincia di Padania: la maggior parte dei marocchini emigrati in Piemonte, Lombardia ed Emilia viene infatti dalla capitale delle arance. «Lavorare la terra sotto il sole marocchino non è uno scherzo e si viene pagati sette euro al giorno»: Salah ti spiega così, senza troppi giri di parole, perché la favola italiana regga ancora.
Molti partono col barcone e per i pochi che ce la fanno è stato costruito un aeroporto. Per le vacanze, per chi può raccontare un lieto fine e per chi, magari, reinvestirà ai piedi dell’Atlante i soldi italiani.
«I marocchini da noi sono il terzo gruppo etnico, migrazione matura e integrata. Partono soprattutto i maschi. Otto su dieci vengono dal triangolo rurale tra le città di Beni Mellal, Pkhi Ben Saleh, e Khouribga» scriveva dieci anni fa Paolo Lambruschi. L’inviato di Avvenire aveva seguito a ritroso le tracce di migliaia di operai, pizzaioli, muratori venuti a faticare nel Belpaese: «L’esodo segue una precisa catena – spiegava il reportage nel momento di massimo flusso –. Quelli di Khouribga a Torino, gli altri a Milano e in Lombardia. Non si sa quanti siano partiti. Ogni famiglia ha un migrante, parecchie hanno un lutto e neppure una tomba su cui piangere il marito o il figlio». A Salah è andata male perché non ha il becco d’un quattrino, ma gli è andata bene perché ha portato a casa la pelle. Ora lo aiuta l’Ong d’ispirazione cattolica Progettomondo.mlal.
Dieci anni dopo, a Beni Mellal tutto sembra cambiato. Le cattedrali nel deserto sono state finite e pitturate di fresco, nelle strade si moltiplicano café sfarzosi, chiamati Venezia e Milano in segno di gratitudine. Si potrebbe chiamare benessere, se non fosse che, a ben osservare la fotografia scattata allora da Avvenire, di nuovo ci sono solo i café, i boulevard alberati e le vetrine illuminate ma il resto di Beni Mellal non è mutato. Scuole e ospedale sono rimasti quelli di allora. In tutta la regione si trova solo una manifattura. Il centro industriale Agropole è semideserto. Malgrado la regione abbia un’intensa produzione agricola non esiste una piattaforma logistica. Sull’autostrada, abbiamo viaggiato in beata solitudine. Non c’è il fermento sperato da tutti: oggi come dieci anni fa «le rimesse sono la terza voce del Pil ma non creano sviluppo».
La maggioranza di chi emigra continua a tornare solo d’estate – e allora l’aeroporto esplode – ma non sceglie il rimpatrio perché è diventata italiana. Non è una questione di passaporto, bensì di stile di vita. «Noi lavoriamo intensamente sulla formazione professionale e sull’educazione dei ragazzi ma la cooperazione internazionale non può colmare il deficit dei servizi pubblici marocchini – spiega Richard Grieco, responsabile di Progettomondo.mlal in Marocco – e chi se ne va in cerca di una vita migliore non si adatta alla sanità e all’istruzione che hanno ancora standard africani». I nuovi condomini del “miracolo italiano” si affacciano sulle stesse strade sterrate, se vuoi un’istruzione di qualità o devi curarti, puoi trovarla solo a pagamento e solo a Casablanca. «Partire è ancora il sogno di molti connazionali – ammette Mohammed Khaddi, responsabile dell’Osservatorio regionale sull’emigrazione e lo sviluppo – e malgrado ci sia una migrazione di ritorno non riusciamo a convincerli a restare, cioè a portare qui i bambini. La realtà, purtroppo, è che la città non è pronta ad accoglierli». Il benessere non si misura in cemento: «Un bambino di Beni Mellal nasce parlando l’arabo marocchino o il berbero, a scuola impara il francese e l’arabo classico, che serve per recitare il Corano – spiega Grieco –, e in genere un bambino che torna dall’Italia non conosce nessuna di queste lingue».
Café esclusi, il governo non ha ancora scoperto come incentivare l’investimento privato e non è semplice in un Paese in cui la proprietà della terra è divisa tra tre tipi di latifondisti: privati, Stato e confraternite religiose. Sono soprattutto loro ad avvantaggiarsi del piano “Marocco verde” lanciato da Rabat. «Uno degli errori principali è quello di non collegare migrazioni e sviluppo: dobbiamo riuscire a far scattare nel marocchino che ritorna in patria la propensione al rischio d’impresa, che oggi è del tutto assente, con il risultato che tutti investono in piccoli esercizi commerciali, i quali non producono occupazione e ricchezza.
Attualmente, la questione migratoria, però, non è inclusa nei piani di sviluppo, gestiti dal consiglio regionale». L’insistenza con cui il funzionario insiste su questo link si spiega con la dimensione delle rimesse marocchine: sei miliardi di euro all’anno, capaci di generare un reddito «moltiplicato per quattro o per cinque» ci confida. Lo stallo dipende anche da ragioni culturali: diversamente dalle grandi città del Marocco, nell’entroterra la società civile non è vitale, non esistono ancora delle associazioni di rimpatriati che potrebbero farsi carico di un investimento collettivo, minimizzando il rischio attraverso soluzioni cooperative. Né bastano ad addolcire lo story telling casi eccezionali come quello di Ali Tijani, che nel borgo di Ouled M’ Barek, dove dieci anni fa era difficile per i bambini immaginare un futuro diverso dall’analfabetismo e dalla migrazione, ha creato un hotel de charme che dà lavoro a decine di ragazzi. Lo trovano molto pittoresco i turisti che passano di qui per visitare le cascate di Ouzoud o Kasba Tadla. Che passano, appunto.