Militari ucraini con un sistema missilistico anticarro vicino alla base di Yavoriv, nell'Ucraina occidentale, sul confine con la Polonia - Ansa
Un timido sole si affaccia furtivo nel bianco latteo delle nubi. Una famigliola di corvi pilucca tranquilla nella neve. A poca distanza un blindato dell’esercito staziona a motori spenti, il muso rivolto verso nord. Dieci metri più avanti si staglia la no man’s land, o se preferite la linea del fronte che dal 2015 separa il quartiere di Sidneyy dal resto del mondo. Invisibili, i separatisti del Donbass sorvegliano da lontano.
Un soldato delle forze armate ucraine all'entrata di una postazione di combattimento vicino alla linea di separazione, poco lontano dal villaggio di Pisky, nella regione di Donetsk - Reuters
Soltanto a guardarla sulla carta geografica, Mariupol si rivela per ciò che è: l’estremo lembo ucraino stretto nella morsa di quella gelida dependance del Mar Nero che prende il nome di Mar d’Azov e che da Rostov sul Don a Nord, alla Crimea a sud alle Repubbliche autoproclamate del Donbass a ovest è ormai quasi tutta terra russa.
Manca solo quel lembo, una spoglia falce di terra perché Azov diventi per i russi un «mare nostrum », sigillato dallo Stretto di Kerch alle spalle del Mar Nero. Ed è proprio qui, attorno a questa cittadina portuale di 430mila abitanti – molti dei quali fuggiti e mai più tornati nel 2014, quando gli «omini verdi» mandati da Mosca la strapparono per un paio di mesi al suolo ucraino – che si stringe lentamente il cappio delle brame di Vladimir Putin. Qui, dove a pochi chilometri si intravede il fronte aperto dell’oblast di Donetsk e dove mai ci si sente al riparo dai cecchini, ogni giorno va silenziosamente in scena il dramma di questa Sarajevo ucraina, che le cronache patrie tuttavia dimenticano, quasi la dessero già per persa, il boccone sacrificale per placare l’ira di Mosca.
Un militare ucraino lavora in una trincea nelle posizioni in prima linea, vicino alla città di Donetsk - Ansa
La città vive una sua soffocante normalità. Nel 2015 è stata bombardata, i segni si vedono ancora sulle facciate delle case, l’ansia repressa dilaga sottile, nascosta da un falso fatalismo. Come quello di Marina Gherman, proprietaria di un negozio di cosmetici al 62 della via Kievsta. Lo stabile è uno di quelli colpiti dalle bombe dei separatisti di Novorossija, i nipotini del maresciallo Zukov che nell’aprile di otto anni fa assediarono il Consiglio comunale e issarono orgogliosi la loro bandiera sul tetto. Con il risultato che qui dove convivevano russofoni e ucraini il ruolo di Mosca non era mai stato un problema e da otto anni lo è diventato. Il graffio dei proiettili della mitragliatrice disegna un’unghia sbilenca sulla facciata appena accanto al negozio di Marina. «Se verrà la guerra, se ci sarà l’invasione me ne andrò – dice –. Non ho un posto dove scappare, ma lo farò, non importa dove. Via da questa città piena di dolore. Ma voi, voi europei, non dovevate difenderci?». Una cliente storce il naso. «Forse sono stati gli stessi ucraini a bombardare le proprie case… Questa è una partita fra Russia e America e noi ci andiamo di mezzo. Ma non siamo noi l’obiettivo». Che cosa farà, signora, se arriveranno davvero i carri armati russi? «Rimarrò qui. Questa è la mia casa, la mia città. Ma i politici, sì, quelli di Kiev, che cosa hanno fatto per proteggerci?».
Il ricordo di Poroshenko, il miliardario imprenditore dolciario, è ancora vicino. Per 5 anni, subito dopo aver firmato l’accordo di associazione con l’Ue e caldeggiato l’ingresso dell’Ucraina nella Nato e provocato la risposta separatista russa, ha governato il Paese. Ma in molti lo ricordano per il munifico sostegno fornito sia all’esercito sia ai tanti volontari che andavano a combattere nel Donbass. Oggi i volontari latitano e si ammassano invece i profughi interni. Cinquantamila, quelli ufficiali; almeno il triplo quelli reali. «Poroshenko non ci faceva mancare niente – dice Vitalij, ex operaio della Illic, il colosso metallurgico fondato da Lenin nel 1924 da cui ha preso il patronimico – né armi, né medicine, né cibo per il fronte. Oggi è tutto più confuso, e la voce del governo qui all’estrema periferia orientale si sente molto poco». Gli occhi grigi da lupo artico di Vitalij inseguono con orgoglio un vago ricordo. «C’era una volta l’Ucraina. Oggi non c’è più». Quella sovietica? «Sì, anche. Era l’acciaieria dell’Urss, si fabbricavano i carri armati T 34, si dislocavano arsenali nucleari… ».
Al posto dei partigiani e dei volontari della guerra oggi si istruiscono i cittadini a fornire il pronto soccorso ai feriti. «È la cosa migliore che possiamo fare – dice la deputata indipendente dell’oblast Katerina Sukhomlinova – perché nessuno si abitua mai alla guerra. Nel 2014 eravamo impreparati, la pace era un fatto normale. Poi si è dovuto imparare a sparare per riottenere quella pace». Ma se davvero ci sarà l’invasione lei cosa farà? «L’invasione sarebbe un boomerang per Putin: anche se avvenisse, non potrebbe mai tenere questo territorio. La resistenza sarebbe fortissima». Lei non scapperà? «Lo farà mia figlia. Ha 17 anni, merita una vita migliore. Abbiamo tanti parenti disseminati per tutta l’Ucraina. Una casa la troverà comunque. Noi abbiamo pronta una valigetta con denaro e medicine. Il resto si vedrà». Due mesi fa la municipalità di Mariupol ha ordinato una batteria di sirene. «Non le avevamo – ammette Katerina – ma in compenso non avevamo neppure una mappa dei rifugi. Ce ne sono tanti, ma pochi sanno dove trovarli e soprattutto quante persone può contenere il singolo rifugio». Ma davvero non ci sono più volontari per il fronte? «Ci saranno di sicuro, ma il Covid ha bloccato l’ingresso degli emigrati ucraini in Israele. Ci avevano promesso un corso di sopravvivenza come lo sanno fare loro, ma non è stato possibile».
Al sonnolento torpore di Mariupol la voce di Joe Biden arriva fiacca e sfibrata. Lo sapete che il presidente americano ha messo in guardia Zelensky sulla possibilità che Kiev venga saccheggiata dalle truppe russe? «È da un paio di settimane che ho chiuso occhi e orecchie – dice una giovane signora appena uscita dal mercato rionale –, non voglio sapere niente e non voglio passare la vita nell’angoscia ». Una coppia di cigni fa lo slalom sulle acque parzialmente ghiacciate. Il porto di Mariupol si specchia mesto nel Mar d’Azov. Sono acque basse, non più di tredici metri di profondità. D’estate ci si sposta più a sud a far finta che quella brulla distesa di sabbia sia la Saint Tropez del Mar Nero, come lo erano fino a poco tempo fa Yalta e Sebastopoli in Crimea. E basso è pure il ponte che Putin ha fatto costruire a Kerch: solo 35 metri, così le navi mercantili che attraccavano a Mariupol non possono più entrare.
Dice il sindaco Vadym Boychenko che la guerra imminente, quella agitata da Biden, «è solo un bluff». Gli si vorrebbe credere, ma soprattutto su una cosa ha ragione: il campo di battaglia per il momento non è sul terreno, ma sui mezzi di informazione e soprattutto di disinformazione. E quella la Russia l’ha già vinta. Manca solo che strappi Mariupol al suo destino.