giovedì 23 settembre 2010
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Da un anno, Pedro lavorava come autista di bus. Con lo stipendio pagava, ogni mese, puntualmente l’affitto della stanza in cui viveva e trascorreva il poco tempo libero. Un’esistenza tranquilla. Le uniche tracce della “vida loca” e violenta nelle bande giovanili di San Salvador – le sanguinarie maras – erano i tatuaggi incisi sul petto e le gambe. Che il ragazzo cercava di nascondere sotto gli abiti. A farlo ripiombare nel passato, è stato l’incontro casuale con “El Tiburon”, ex compagno di gang. Si sono riconosciuti e non c’è stato bisogno di parlare. Pedro sapeva che «dalla mara si esce solo da morti». Non si è, perciò, stupito quando, a mo’ di saluto, “El Tiburon” ha tirato fuori la pistola e l’ha colpito. È spirato prima di arrivare in ospedale.Pedro aveva 18 anni, dai 13 ai 17 era stato un marero. Una delle migliaia di chamacos de barrio – cioè ragazzi delle baraccopoli – che alimentano con la propria vita – e, in genere, con la propria morte prematura – le violente gang criminali centroamericane. Difficile conoscere il numero esatto. Secondo l’Fbi, sono 60mila. Per Ong ed esperti sono da 50 a 100mila, concentrati in Salvador e nel resto del turbolento Triangulo Norte (triangolo Nord) ovvero Guatemala e Honduras. Hanno perloppiù tra i 12 e i 25 anni. Ma ci sono anche baby mareros di 8-10 anni. In Salvador, la politica della “mano dura” contro la delinquenza dei presidenti Francisco Flores e Antonio Saca – di centrodestra – e, ora, dal leader di sinistra Mauricio Funes ha saturato le carceri.Nei 24 penitenziari del Paese più piccolo d’America ci sono 23.690 detenuti, un terzo è in attesa di giudizio. «Sono oltre 15mila in più rispetto alla capienza massima, di appena 8.110 prigionieri», spiega ad Avvenire Leonor Arteaga, della Procuradoria de Derechos Humanos, l’ente che si occupa della tutela dei cittadini vittime di abusi. Nel 2005, erano poco più di 12mila. Nei due terzi dei casi sono giovani mareros, catturati per estorsione – le rentas sono la principale attività di cui vivono le bande –, spaccio, sequestro e omicidio. Il giro di vite non ha, però, fermato il dilagare della violenza in Salvador. Negli ultimi cinque anni – rivela l’Istituto di medicina legale – ci sono stati oltre 21mila delitti. Tantissimi per una popolazione di meno di sei milioni di abitanti. A preoccupare, poi, è il rapido incremento della mattanza.Nel 2004 gli assassinii erano 2.813. L’anno scorso sono stati 4.367, in media 11 al giorno. E da gennaio sono già più di 2.500. Il recente caso di Marleny Alejandra – la bimba di sei anni sequestrata all’uscita di scuola da una gang e decapitata perché la madre non poteva pagare il riscatto di 50 dollari – ha choccato e indignato il Paese. Stremato dalla paura. I conducenti dei bus vivono ogni viaggio come se fosse l’ultimo: ogni giorno, due di loro sono ammazzati. I negozi che non possono pagare la “protezione” chiudono. Studenti e insegnanti disertano le classi: su 6mila istituti almeno mille sono considerati a rischio, soprattutto nelle spopolate aree rurali.Quest’emergenza – insieme all’incendio di un bus in estate – ha accelerato l’approvazione da parte del Parlamento della cosiddetta legge “antimaras”. Che punisce con un massimo di sei anni di prigione chi collabora con una banda o la finanzia. La norma ha spaccato la nazione. Ong e attivisti per i diritti umani hanno accusato Funes di demagogia. Le due principali gang – la Mara Salvatrucha e la Pandilla del Barrio 18 – hanno reagito proclamando uno sciopero di tre giorni dei trasporti della capitale. Tutti – o quasi – gli autisti vi hanno aderito, non proprio spontaneamente. Il blocco è costato al governo 68 milioni di dollari. Ma non l’ha fatto desistere. Anzi, Guatemala e Honduras hanno annunciato misure simili e hanno proposto una strategia regionale contro la criminalità. Di cui le maras sono un fattore importante.«Ma non l’unico – dice ad Avvenire José Miguel Cruz, ricercatore della Vanderbilt University – e nemmeno il principale. Direi che sono responsabili del 25-30 per cento dei delitti. Il resto è opera del crimine organizzato e dei cartelli della droga. Questi hanno molte più “possibilità”, in termini di armi, soldi e, dunque, capacità di corruzione, di seminare il terrore». Il Trinagulo Norte è un punto di passaggio cruciale della narco-rotta che porta la coca colombiana in Europa. L’instabilità politica e la straziante diseguaglianza economica garantiscono ai cartelli – in genere messicani – impunità, sicurezza nelle operazioni e manodopera a buon mercato, da impiegare come spacciatori o sicari. «I mareros spesso lavorano al menudeo, cioè smercio di piccole quantità di droga. O come killer per i signori degli stupefacenti. Il rapporto che, però, si stabilisce con questi ultimi è di tipo personale – spiega ad Avvenire l’esperto messicano Alfredo Nateras –. Non della mara come tale». Lo conferma anche l’ultimo rapporto Onu sul narcotraffico: le bande giovanili hanno un ruolo marginale: non hanno i mezzi per competere nel mercato criminale. All’ostacolo “strutturale” se ne aggiunge, poi, uno culturale. La gang sono poco propense ad accettare la subordinazione ai grandi trafficanti. «All’interno – aggiunge Nateras –, hanno un sistema decisionale pseudo “democratico”. Le iniziative vengono prese durante le ruedas, le riunioni». E aggiunge, in tono scherzoso: «Garantiscono anche una qualche parità di sesso: le ragazze sono numerose nelle bande. E svolgono gli stessi lavori criminali degli uomini». Per i giovani delle baraccopoli – maschi e femmine – rappresentano spesso l’unica possibilità di sopravvivenza. O, meglio, così si illudono. «L’esistenza di un marero ha la brevità di uno sparo. Per la mia prima pubblicazione, quindici anni fa, ne ho intervistato 20 – racconta Cruz –. Solo quattro sono ancora vivi».
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