Hassan preferisce che l’incontro avvenga in un bar della periferia di Bamako, lontano dal traffico e dagli imprevisti del centro. «Troppe voci e troppe orecchie in quella parte di città», confessa mentre si siede in un angolo buio del locale. Trentenne e originario di Timbuctu, Hassan è riuscito a scappare portando con sé le due sorelle minori. La sua città natale è ormai alla mercé dell’integralismo islamico che ha imposto una cruda versione della sharia e, per vergognosa provocazione, continua a distruggere i preziosissimi santuari del quindicesimo secolo dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità: proprio ieri altre due moschee sono state colpite. Hassan è arrivato dopo un viaggio di trentasei ore, costatogli quasi tutti i risparmi. Lui e le sue sorelle sono dovuti uscire dalla città di nascosto evitando di essere fermati dagli integralisti. Sul traghetto che li ha portati dall’altra parte del fiume Niger, hanno pagato i ribelli del Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (Mnla) perché una sorella non aveva la carta d’identità. La loro unica sacca, riempita con qualche vestito, è stata completamente svuotata e sbattuta per terra. L’autobus li ha portati a Mopti, l’avamposto di frontiera dove l’esercito aspetta l’ordine per attaccare. Il viaggio è stato interrotto da altri posti di blocco occupati prima dai ribelli, poi dai militari e poi ancora dalla polizia maliana. Dopo aver cambiato autobus a Mopti, l’intera comunità di sfollati si è divisa tra chi voleva raggiungere Bamako e chi preferiva oltrepassare il confine, dirigendosi verso il Burkina Faso. Hassan, avvalendosi dei suoi contatti di ex guida turistica, è riuscito a trovare ospitalità in tre diverse famiglie della capitale. Ora è stanchissimo. Ordina la sua prima birra fresca dopo tanto tempo e si accende una sigaretta, emettendo un sofferto sospiro di sollievo. Da quando Timbuctu è stata occupata dagli estremisti islamici di Ansar Dine (i “difensori della fede”), alcol, musica e sigarette sono vietati, e chiunque non rispetta le regole è punito severamente. «Nessuno di noi ha mai vissuto un inferno simile. Non ci permettono persino di camminare vicino alle donne – spiega Hassan – se hanno qualche dubbio, gli islamisti ti colpiscono con il calcio del kalashnikov e ti domandano se la ragazza con cui passeggi è tua sorella. In quel caso ti ordinano di riportarla a casa». Dal corpo esile e il viso scavato, Hassan fatica a guardare negli occhi il suo interlocutore. Sembra che abbia difficoltà a credere ai suoi stessi racconti. «Fino a pochi mesi fa portavo i turisti a vedere “la mia Timbuctu” – continua con profonda tristezza – ora, invece, sono costretto a fuggire. Ho abbandonato persino mia mamma, troppo vecchia per viaggiare, e non so quando la potrò rivedere». Il fondamentalismo islamico ha travolto le provincie settentrionali di Timbuctu, Gao, e Kidal. In questa vasta regione ora regna il terrore. «I militanti di Ansar Dine e di altri gruppi qaedisti continuano a reclutare ragazzini, stuprare le donne e fustigare in pubblico chiunque non rispetti le loro assurdità – continua Hassan – ma noi sappiamo che questo non è il vero islam». E ancora ieri la furia iconoclasta dell’integralismo ha nuovamente preso di mira i santuari di Timbuctu. I ribelli di Ansar Dine hanno distrutto due tombe dell’antica moschea di Djingareyber, una delle tre più grandi in Mali. Nei giorni precedenti, la rabbia dei militanti del salafismo (una corrente islamica che considera proibita ogni forma di adorazione), si era abbattuta su diversi mausolei. «Non capisco perché il nostro esercito non intervenga», si chiede Mohamed, un altro ventunenne arrivato a Bamako poco prima di Hassan. Lo incontriamo alla stazione dei bus. «Ho lasciato – racconta – il mio piccolo ristorante perché avevo paura di essere reclutato dagli integralisti, ma se ci fosse un intervento militare per liberare il Nord – continua il giovane – sarei il primo ad arruolarmi». Mohamed ha aiutato diversi suoi amici a scappare da Timbuctu, persino alcuni militari dell’esercito maliano. «Sporcavo i nostri pantaloni e camice di modo che i ribelli ci scambiassero per contadini diretti nei campi – ricorda ancora –: caricavo quei disperati in fuga uno alla volta sul mio motorino, giorno dopo giorno; ordinavo loro di non parlare ai posti di blocco e li portavo al traghetto».
Ma con l’aggravarsi della situazione, Mohamed ha dovuto usare la stessa strategia con se stesso. Una volta arrivato a Mopti, i militari lo hanno fermato pensando che fosse un ribelle e lo hanno trattenuto fino a quando lui è riuscito a convincerli che era anche lui in fuga da quell’orrore. Dopo essere salito su un camion che trasportava bestiame, ha raggiunto la capitale Bamako con lo zaino: dentro un paio di bermuda, una camicia e una saponetta. Quello che gli resta per iniziare una nuova vita.