Vladimir Putin - Ansa
In spregio a qualsiasi negoziato, quello sui corrodoi umanitari appena concluso. E puntando una pistola alla tempia a qualsiasi trattativa futura, quella ad Antalya fra Kuleba e Lavrov. È la strategia di Putin, che fa bersaglio di ospedali e che prepara assedi di città con civili intrappolati come formiche. «Assedio», una parola che, nel cuore dell’Europa, risuona come una triste reminiscenza della Seconda guerra mondiale, se non di leggende medievali fra castelli e ponti levatoi. Eppure la guerra di Putin non fa che replicare lo schema bellico di quanto attuato in Siria da quando nel settembre del 2015 la Camera alta russa autorizzò il Cremlino a impiegare le forze armate a sostegno del regime in quel momento traballante di Bashar el-Assad.
La lontananza dai riflettori, e l’inestricabile dedalo di milizie e alleanze spurie, oltre alla innegabile infiltrazione di miliziazie jihadiste nella galassia dell’opposizione controllata dall’estero, ha fatto velo al metodo di azione del regime di Damasco, almeno fino a inizio 2018, di cui i russi sono i protettori e gli ispiratori. E così, mentre l’incubo di una guerra mediorientale si è materializzato nel cuore della antica Rus’, il parallelo fra Aleppo e Kiev, o fra la Ghouta di Damasco e Mariupol, si impone come un cupo presentimento. La macchina della propaganda di qualsiasi dittatura chiama indistintamente terroristi tutti gli oppositori: quindi «jihadista» chiunque si opponga al regime di Assad, come «nazista» chiunque sostenga la sovranità di Kiev. Grossolano artificio propagandistico, che giustifica l’“usare” le città colme di civili come bersagli. È stato così alla Ghouta di Damasco, “covo” degli oppositori e per questo rasa al suolo dopo aver usato oltre che bombe anche armi non convenzionali. Ed è stato così ad Aleppo Est, definita sempre dal regime “covo” dell’opposizione, e per questo stretta d’assedio e rasa al suolo dalle bombe.
Il conflitto civile siriano non è certo sovrapponibile meccanicamente alla questione ucraina. E nessuna propaganda potrà paragonare Zelensky, il presidente nel bunker in maglietta militare, ad Abu Bakr al-Baghdadi, asserragliato a Raqqa. In Siria nessun negoziato, nessuna Road map scritta dalle Nazioni Unite fecero recedere Assad e Putin dal proseguire fino al «raggiungimento degli obiettivi militari prefissati». Un metodo criminale che, ripetuto ora, fa strame a qualsiasi richiesta di sicurezza strategica o discutibile rivendicazione storica. Di fronte alle immagini dell’ospedale di Mariupol distrutto, la domanda è cosa potrà far cambiare metodo ai generali russi? Di fronte alle bombe sui bambini e sui civili di Mariopul, svanisce qualsiasi legittima richiesta di sicurezza regionale o qualsiasi dubbia rivendicazione storica.
La sola speranza è che la risposta politica a ciò che avviene al confine dell’Unione Europea sia adeguata e capace di fermare il crimine commesso. Mercoledì a piazza Maidan a Kiev, mentre i russi avanzano verso la capitale, insieme all’inno nazionale è risuonato anche l’Inno alla gioia di Beethoven: un segnale inequivocabile. Tocca all’Ue far sì che quello di mercoledì non sia l’ultimo concerto a Maidan. E fare sì che l’inno d’Europa risuoni ancora a Kiev.