giovedì 17 dicembre 2009
COMMENTA E CONDIVIDI
La barca è rimasta sul tetto della casa al centro del quartiere portuale di Meuraxa, a un chilometro dal mare. Come cinque anni fa. L’hanno lasciata per ricordare alle generazioni future cosa accadde la mattina del 26 dicembre 2004, quando lo tsunami più forte della storia uccise 125 mila persone, delle quali 40 mila bambini, provocò 100 mila dispersi mai ritrovati e cambiò per sempre fisionomia e anima di Banda Aceh. Intere famiglie sono state distrutte, ma questa terra ha voluto ricominciare. Non c’è più uno sfollato nella città rimessa a nuovo e ovunque cartelli indicano l’Ong che ha ricostruito. I segni del dolore immenso e della gratitudine sono diffusi nelle strade. Un enorme parco di ringraziamento al mondo, con una stele dedicata a ogni nazione, un museo dello tsunami di prossima apertura, giardini della memoria, rottami di barche e macerie sul greto del fiume.Mohar, che ha 50 anni, viveva a Meuraxa. Oggi vive nel "villaggio dell’amicizia" costruito dai cinesi su una collina a sud della città. La sua storia travagliata è quella di tanti sopravvissuti.«Abitavamo proprio dove si schiantò l’onda. Quella mattina per fortuna ero dai suoceri. insieme a mia moglie e ai miei due figli rimasti. Ne ho perso uno, come Allah ha voluto, il maggiore. Non ho più fatto una notte di sonno da allora, come tanti, ma ho deciso che la vita doveva continuare. Chi ha avuto l’abitazione distrutta, ha ricevuto i soldi per ricostruirla. Ma nel mio caso, come per il 15% della popolazione, il suolo è stato sommerso dal mare. Così siamo stati sfollati fino al 2007. Poi ci hanno spostato qui insieme ad altri nelle mie condizioni. Lo stato mi ha trovato un lavoro nella pubblica amministrazione dopo gli accordi di pace, nel 2007. E uno dei Paesi donatori, la Cina, mi ha dato un tetto».Gli aiuti umanitari e la fine della guerra con l’apertura alla società civile globale, cui si opposero fino al marzo 2005 le autorità islamiche locali. Lo tsunami ha innescato questa sequenza di mutamento. Sono arrivate 153 ong, tra cui la rete Caritas internationalis, ogni Paese ha voluto aiutare questa terra a rinascere generando un immenso flusso di denaro. «L’Indonesia ha ricevuto quasi 5,5 miliardi di dollari contro i 3,5 di danni stimati dalla Banca mondiale – spiega l’economista Teuku Barhi – e oggi Aceh, nonostante la proverbiale corruzione nazionale, è stata ricostruita e la povertà attenuata almeno in città, mentre resta diffusa in campagna. Soprattutto, dopo 30 anni di guerra civile e l’introduzione della sharia del 2001, grazie agli aiuti si è aperta. Quanto? La richiesta di personale locale da parte delle ong e dell’agenzia nazionale per la ricostruzione ha portato piena occupazione e, quasi contemporaneamente, la legge coranica non è stata più accettata in città. I problemi cominciano ora, perché i programmi di cooperazione stanno terminando, l’agenzia ha chiuso e stanno partendo gli occidentali». Il cambiamento si vede ad esempio nei primi visi truccati sotto il velo, nel fatto che le ragazze sono la maggioranza tra gli iscritti all’università. Per strada sulle jeep scure vigilano sulla rigida morale pubblica i guardiani in nero della "Sharia police". Multano le donne che a 40 gradi osano scoprire i piedi o le coppie che si scambiano effusioni. Spesso i fermati protestano e l’opinione pubblica si è opposta alla risoluzione del parlamento, votata a settembre, che introduceva la lapidazione delle adultere. Barhi coordina Occhio su Aceh, associazione finanziata dal 2003 da Trocaire, la Caritas irlandese, per monitorare il conflitto. «Scoppiò nel 1976 tra governo centrale e fronte autonomista del Gam, estremisti islamici. Che nel 2001 imposero la sharia. Aceh era chiusa da 30 anni quando il maremoto devastò la provincia, tanto che le autorità di Giakarta vietarono l’ingresso ai soccorritori per due giorni. Il motivo del conflitto era il controllo dei grandi giacimenti di petrolio, gas e delle miniere di carbone, i cui diritti andavano dritti nella capitale, mentre qui restavano le briciole. I paesi sviluppati nel 2005 hanno imposto la pace, così oggi la Exxon Mobil, che estrae il petrolio, ripartisce tra capitale e capoluogo i proventi. Ci chiediamo se l’apertura e la pace reggeranno alla partenza delle ong». Che qualcuno vorrebbe accelerare. Solo così si spiegano tre misteriosi attentati avvenuti il mese scorso contro esponenti occidentali del mondo della cooperazione. E i cattolici? Davanti alla chiesa del Sacro Cuore, una lapide ricorda i 20 morti della piccola comunità cattolica di Banda Aceh, composta da 1200 persone. Quasi tutti cinesi, diaspora di commercianti che si convertono lontano da Pechino. Il giovane parroco, pastor Eko, arrivò a metà gennaio del 2005 a sostituire il missionario italiano Ferdinando Severi. Il suo predecessore era stato minacciato di morte, anche Eko ha subito la stessa sorte. Ma scuote le spalle. «Non abbiamo paura. Sa perché? Dopo lo tsunami abbiamo aiutato molte famiglie che avevano perso tutto, ci siamo occupati degli orfani e dei poveri. La Caritas ha sostenuto la ricostruzione, oggi con i progetti agricoli e il microcredito sta aiutando lo sviluppo e la dignità delle popolazioni delle campagne a sud, vittime prima della guerra e poi del maremoto. Così è aumentata la stima e sono caduti i sospetti di proselitismo».Cinque anni dopo l’onda di carità del mondo ha portato la pace e curato le ferite. E forse ha cambiato la mente e il cuore di Banda Aceh.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: