Ma quanto vale davvero questa “prorogation”? Oltre un milione e mezzo di firme di protesta, la sconfessione a sorpresa del “Financial Times”, la minaccia di un voto di sfiducia da parte del leader laburista Corbyn sono per ora il prezzo tutt’altro che lieve suscitato dalla decisione di Boris Johnson di sospendere per cinque settimane l’attività del Parlamento fino al 14 ottobre. Decisione formalmente legittima e avallata dalla Corona con la firma della regina, è vero, ma che è stata da più parti considerata «una bomba nel sistema costituzionale britannico, quasi un golpe».
Lo scopo di Johnson è noto: impedire il varo di una legge che escluda il famigerato no-deal, ovvero la Brexit senza alcun accordo con l’Unione Europa, un’uscita che il premier preannuncia laconico così: «Lasceremo l’Unione Europea il 31 ottobre, investiremo sulla sanità e l’istruzione e combatteremo il crimine». La firma che Elisabetta II ha apposto dal castello di Balmoral alla richiesta di Boris Johnson non basta ad allontanare il sospetto di un colpo di mano, l’ombra maligna di una visione dispotica del potere che nel Paese che ha fatto cadere la testa di un re suona come un sacrilegio.
Ora forse – alla luce di questa forzatura costituzionale – si comprende meglio come l’ammirazione di Donald Trump per Johnson («The great Boris Johnson») nasconda una malcelata invidia da parte di un presidente sovranista e conservatore quanto lui, che farebbe carte false per poter sospendere le attività del Congresso e far maturare certi provvedimenti invisi alla maggioranza parlamentare, primo fra tutti la grande muraglia fra Stati Uniti e Messico.
Ma su cosa punta Boris Johnson? La catena di scelleratezze che perseguita il Regno Unito, iniziata con il referendum sulla Brexit indetto da James Cameron e proseguita con le elezioni politiche richieste dalla May per rafforzare una maggioranza che invece si è indebolita fino a dover ricorrere ai voti irlandesi si arricchisce ora di un gesto clamoroso che non nasconde soltanto il timore di un ribaltone parlamentare (la posizione di Johnson è fragilissima, il governo può contare sulla maggioranza di un solo seggio), ma forse qualcosa di più prosaico. E quel qualcosa è forse racchiuso nel magico numero 39.
Tanti sono i miliardi di sterline (43 in euro) che in base agli accordi il Regno Unito è tenuto a pagare per saldare i propri impegni con l’Unione Europea. Una cifra che BoJo ha già fatto sapere che non sarà disposto a versare in caso di hard-Brexit, ossia di un’uscita senza accordo. Snob ed elitista quanto Margaret Thatcher incarnava la rivincita del ceto medio avido e bottegaio, Boris Johnson e la Lady di Ferro hanno tuttavia in comune, oltre alla militanza tory, una schietta propensione a schiudere malvolentieri i cordoni della borsa. Soprattutto se a beneficiarne è l’odiata Europa, con i suoi bizantinismi, i suoi barbari riti politici, i suoi esecrabili gusti alimentari («Con gente che mangia lumache, coniglio e carne di cavallo – disse una volta la Thatcher – è preferibile non avere a che fare»).
Cosa ne farà il premier di questo eventuale tesoretto è presto per dirlo. Si parla comunque di una cifra consistente, pari quasi all’intero bilancio della Difesa. Una montagnola di sterline che può dargli l’illusione di rilanciare la spesa pubblica e contrastare il costo reale della Brexit che gli inglesi stanno pagando: 500 milioni di sterline a settimana secondo il “Guardian”, con una contrazione del 2,5% dell’economia nazionale e una moneta in progressiva caduta. Niente di che rallegrare la City (che non a caso aveva votato contro il leave), l’unica vera potenza finora che Boris Johnson davvero teme.