Scoppia il Tibet? Per Pechino non c’è che un responsabile: il Dalai Lama che, spalleggiato dalla sua “cricca”, tira le fila della rivolta dall’estero. Scoppia lo Xinjiang? Pechino grida al complotto. Pronto anche il “mandante”: Rebiya Kadeer, presidente del Congresso mondiale degli uighuri. La “mente” dei disordini è insomma sempre all’estero, è sempre un fuoriuscito, qualcuno che si è venduto, che collabora con le potenze straniere. L’accusa, nell’uno e nell’altro caso, è uguale: volersi separare dalla madre patria, strappare un legame inviolabile per Pechino. Come nel Tibet, l’origine degli scontri che hanno insanguinato lo Xinjiang – regione desertica e montuosa ma ricca di risorse naturali nel nordovest della Cina – saranno accompagnate dalle opposte versioni, una che attribuisce agli uighuri la miccia della rivolta, l’altra alla repressione cinese. Due storie analoghe, quelle del Tibet e dello Xinjiang. Cambia la composizione etnica – gli uighuri, turcofoni e di religione musulmana sono gli abitanti originari della regione che essi chiamano, ostinatamente, Turkestan dell’est – ma simile la strategia usata da Pechino. La massiccia “ invasione” dei cinesi han. L’annacquamento delle identità culturali – e della loro irriducibilità – attraverso una vera e propria colonizzazione. Gli uighuri oggi sono solo il 44 per cento dei 20 milioni di abitanti della regione. All’immigrazione, si accompagna la distruzione o l’alterazione dei luoghi simbolici, attorno ai quali si aggruma l’identità di un gruppo. È quello che sta accadendo del vecchio bazar di Kashgar, la capitale della cultura uighura. Non una città qualsiasi: una volta una delle oasi più importanti sulla Via della Seta, essa è anche la porta della Cina verso l’Asia centrale e meridionale. A pochi chilometri da Kashgar, sulle montagne del Pamir, si incontrano infatti i confini con Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan ed India. Ebbene le centomila famiglie che vivevano nel bazar, un labirinto di vicoli e di vecchie costruzioni tradizionali, sono state trasferite in nuove costruzioni alla periferia della città. Il bazar sarà raso al suolo. Una decisione definita « un affronto alla cultura uighura ed un tentativo di assimilazione degli uighuri » dalla dissidente Rebiya Kadeer. La distruzione del bazar di Kashgar è il simbolo della «rimozione della cultura» del gruppo musulmano