Esiste un "buco nero" nella coscienza democratica dell’India e del suo ideale di convivenza, fatto di nuove violenze, giustizia negata e perdita di slancio ideale. L’offensiva del fondamentalismo di matrice induista infatti continua e la comunità cristiana nel suo complesso, non solo la Chiesa cattolica, è chiamata a una reazione che non sia solo di autodifesa, ma anche di piena partecipazione allo sforzo della società indiana di evolvere da antiche consuetudini e contraddizioni per diventare un Paese insieme moderno e dalle forti radici, pluralista e realmente democratico.«Se la Chiesa, la società civile, i gruppi di difesa dei diritti umani non si muovono ora a difesa delle comunità più vulnerabili, sarà come indicare ai gruppi fanatici una sorta di immunità per i loro attacchi ovunque verso chiunque – dice padre Ajay Kumar Singh, responsabile delle attività sociali dell’arcidiocesi di Cuttack-Bhubaneswar –. In Kandhamal le atrocità commesse riflettono la collusione fra gruppi fanatici e le forze castali per soggiogare
dalit (indiani di bassa casta e fuoricasta) e tribali che hanno scelto di diventare cristiani proprio per uscire dalla millenaria sottomissione.La Chiesa dell’India che è in massima parte formata da
dalit e tribali, dovrebbe reagire al disegno nefasto delle forze fondamentaliste che preferiscono imporre la loro cultura e ideologia piuttosto che consentire alla popolazione di esercitare una libera scelta di adesione religiosa». «I gruppi radicali non solo pretendono di imporre quale fede ciascuno dovrebbe seguire, ma intervengono anche in aspetti quotidiani, come il cibo – prosegue padre Singh –. Abitualmente la gente del Kandhamal consuma anche carne e l’imposizione di un regime esclusivamente vegetariano, come chiesto dai radicali induisti – che peraltro non esitano ad usare la violenza, contraddicendosi – è qualcosa che mai si era registrata prima».Il caso del Kandhamal non è purtroppo isolato e le pressioni, intimidazioni, le attività rivolte alla rinconversione, volontaria o forzata, dei fondamentalisti dalle vesti o dalle insegne color zafferano si moltiplicano in molte parti dell’India, proprio "facendo tesoro" dell’esperienza del Kandhamal. Lo sviluppo delle comunità tribali e
dalit, sostenuto dalla Chiesa cattolica e da altre iniziative cristiane è diventata una chiara minaccia per queste forze, da qui la volontà di vendetta, dimostrata dai 450 luoghi di culto cristiani distrutti o danneggiati nelle violenze del 2008 nel distretto di Kandhamal e nelle aree limitrofe dell’Orissa. Ma vi è un altro Stato, all’estremità opposta del Paese, quello occidentale di Orissa, in cui la comunità cristiana è sì sotto pressione, ma più ancora lo è quella musulmana, ben più consistente. Se l’Orissa è diventato per gli attivisti cristiani «un laboratorio di pulizia etnico-religiosa», il Gujarat lo è per i musulmani. Nello Stato che ha visto nascere il "Mahatma" Gandhi e ha visto svilupparsi alcune tra le più significative attività di lotta nonviolenta, il radicalismo induista sostenuto dalle sue affiliazioni politiche è da anni all’offensiva. Di una diocesi del Gujarat, quella di Gandhinagar (la città di Gandhi) è arcivescovo monsignor Stanislaus Fernandes, gesuita, fino a pochi mesi fa Segretario generale della Conferenza episcopale indiana, in un’area che, ormai lontana dagli insegnamenti della "Grande Anima" vede periodiche tensioni e quotidiane minacce alla libertà religiosa. In una tale situazione viene spontaneo chiedere a un prelato di grande esperienza e di attiva partecipazione al dialogo come la Chiesa indiana possa difendere i propri diritti senza astrarsi, mettendosi sulla difensiva, dall’insieme della società? «La lezione principale che dobbiamo trarre dai fatti dell’Orissa, dove siamo stati attaccati da frange estremiste di una maggioranza pacifica – risponde monsignor Fernandes – è che dobbiamo contribuire alla costruzione di comunità pluraliste. La libertà religiosa è un diritto ma nessuna fede dovrebbe isolare una comunità dall’altra. Rispetto e tolleranza, armonia e pace devono essere rafforzate dal dialogo, non dall’esclusione. La Conferenza episcopale cattolica dell’India ha istituito recentemente un comitato sotto la guida del vescovo Yvon Ambrose per riflettere sulla situazione prevalente e suggerire ai cattolici un cammino futuro». Con grande cautela. Una cautela che, davanti alla pressione integralista che quotidianamente influisce sulla vita delle comunità cristiane, è anche sottoposta alle critiche di gruppi di laici attivi nella politica e nel sociale, ma anche da esponenti del clero. «La campagna contro i cristiani può essere contrastata soltanto continuando nell’impegno costante di creare un clima di fiducia con i nostri vicini. Lavorando per portare il nostro messaggio e le nostre opere ovunque, anche nei villaggi, contrastando con l’impegno e l’esempio le accuse di proselitismo che ci vengono falsamente rivolte. Io – dice l’arcivescovo di Gandhinagar – generalmente non concordo con il termine "persecuzione religiosa". Il governo del Gujarat ha creato leggi uguali per tutti, nessuna riguarda un particolare settore della società. La recente legge per il diritto allo studio, invece, molto buona per certi aspetti, va a interessare la libertà delle istituzioni educative, viola i diritti umani e riduce i diritti delle minoranze. Lentamente si assiste a un’erosione dei nostri diritti di minoranza che non avevamo mai sperimentato. In questo senso possiamo parlare di persecuzione, una situazione che non è solo del Gujarat ma anche di altri Stati», conclude mons. Fernandes.