Rhoda non avrebbe dimenticato la sua prima volta. Aveva quindici anni. La pelle nerissima si confondeva nel buio di una stanza senza finestre. I capelli raccolti in fitte treccine. Il cuore che palpita. «Erano in cinque, quattro l’hanno bloccata a terra mentre gridava. Il quinto, "il bastardo di Zuara" è stato il suo primo uomo», racconta una compagna come lei cristiana in fuga dalla Nigeria dei miliziani Boko Haram. «Poi, come sempre, hanno fatto a turno».
Rhoda era bellissima, «per questo anche se aveva pagato non la lasciavano mai partire». Il buco nero delle prigioni clandestine ha numeri da Terzo Reich. Stando a fonti locali dell’Organizzazione internazionale dei migranti, sono circa 400mila i profughi "contabilizzati" dalle autorità di Tripoli, ma quelli rimasti imprigionati nel Paese, secondo stime ufficiose confermate anche da fonti di intelligence italiane, sarebbero tra gli 800mila e il milione. Dall’Oim segnalano però che i centri di detenzione sotto il controllo del governo e dei 14 sindaci che si sono accordati con l’Italia per fermare le partenze sono una trentina, e al momento vi sarebbero rinchiuse non più di 15mila persone. Dove sono stati inghiottiti gli altri?
A Zuara ne abbiamo trovati alcune decine. Esseri umani in trappole senza scampo. È qui che Rhoda è morta dopo le prime notti in balia dei capricci degli scafisti. Era un anno fa. Dicono si sia ammazzata mentre tutti dormivano. Prima, cercava qualcosa con cui sfigurarsi. Acido, candeggina, oppure del fuoco. Fino a quando – racconta l’amica – trovò la lama di un rasoio usato dai migranti maschi.
Tra le borgate e i campi petroliferi spadroneggia Fathi al-Far, comandante della brigata al-Nasr, alleato forte del premier al-Sarraj, riconosciuto dalla comunità internazionale. al-Far, ex colonnello dell’esercito di Gheddafi, secondo gli investigatori Onu «ha aperto un centro di detenzione», proprio tra Tripoli e Zuara. «Il centro – dicono alle Nazioni Unite – è usato per vendere i migranti ai contrabbandieri».
A Zuara ci arriviamo attraverso il confine tunisino. Sorvegliato quanto basta per evitare il passaggio di armi, ma non di nafta di contrabbando, di cui a Tunisi sono assetati. Quando Karim strattona di forza la leva del cambio per scalare le marce del vecchio carro cisterna italiano, la tensione sale a mano a mano che la velocità scende. È l’alba, ci vorranno un paio d’ore prima che i doganieri ci lascino andare.
Il casamento dei neri, al di qua della strada che scorre sul mare, è nascosto alla vista da un muro perimetrale alto quattro metri, fatto di blocchi di tufo giallo appoggiati l’uno all’altro, senza neanche una spanna di cemento. Il confine è a meno di un’ora. La città, appena dietro gli ultimi tornanti tra sabbia, terra incolta e radi cespugli.
La prigione è un rettangolo non più grande di un campo da calcio. Si intravedono i tralicci di un paio di pozzi petroliferi in disarmo. All’interno, da una parte ci sono «les chambres», come i tunisini chiamano i maleodoranti stanzoni dei migranti, e dall’altra il piazzale con un paio di enormi serbatoi arrugginiti che arrostiscono al sole. È qui che viene immagazzinata la nafta da vendere ai contrabbandieri. A Karim, che ci viene un paio di volte alla settimana, oramai è permesso sbirciare all’interno.
I migranti vengono schiavizzati. A turno lavorano nel piazzale delle autobotti. A mani nude trascinano i raccordi che sputano carburante. È in quei momenti, quando la confusione è grande quanto la fretta di rifornire i distributori delle province tunisine, che Karim riesce a parlare con i «pauvres diables», raccogliendo le storie dei «poveri sventurati» che gli fanno maledire il giorno in cui ha scelto di rinunciare alla "clandestinità" in Italia per l’illegalità in casa sua. «Non c’è niente che posso fare, ma prego ogni giorno Allah per loro», dice.
Il blasfemo jihad degli stupratori libici si compie ogni sera, dopo che le autobotti dei contrabbandieri tornano indietro. «Allah Akbar», urlano mentre torturano gli uomini e assaltano le donne. Accanto alla vittima mettono un telefono mentre picchiano più duro, così che i malcapitati implorino pietà e altri soldi dai parenti rimasti nei villaggi.
Il 2 agosto, relazionando alla commissione Schengen, il direttore dell’Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim, Federico Soda, disse che le condizioni dei complessi "governativi" sono tali da non lasciare alternativa: «Andrebbero chiusi subito». L’agenzia dell’Onu aveva avuto accesso solo a una ventina di strutture, «per cui immaginiamo che le condizioni dei centri che non abbiamo potuto vedere siano ancora peggiori». Basta questo per immaginare cosa siano i lager che sfuggono a qualsiasi seppur sporadico controllo.
Anche venerdì, per la festa dell’Hajd, il grande giorno del Sacrificio, «il bastardo di Zuara», è tornato a disonorare l’islam. Dicono faccia il militare di giorno e il trafficante di notte. «È lui a comandare il campo di concentramento», spiega l’amica di Rhoda. Ha capelli arruffati e modi sgraziati. La incontriamo di nascosto, mentre spazza via la poltiglia di sabbia e petrolio. «Voglio essere brutta, ogni giorno più brutta. Così la smetteranno». Da qualche settimana, dicono i trafficanti di gasolio, c’è solo gente che entra e nessuno che va via coi gommoni. Una situazione esplosiva che fa essere gli scafisti ancora più cattivi, forse per il timore di non poter fronteggiare da soli una rivolta di centinaia di persone.
Le finestre degli stanzoni dei migranti sono coperte da drappi che impediscono di vedere bene all’interno. Il brusio, nessuna barriera può però fermarlo. Si sente il pianto di un bambino. Poi per un istante, lo straccio che fa da tenda viene scostato. Osserviamo un ammasso indistinto di esseri umani accucciati per terra. Uomini donne e bambini addossati a gruppi di trenta o quaranta per stanza. Ogni vano non supera i cinquanta metri quadri. Di colpo gli sguardi di mille occhi si alzano verso la finestra. E ci guardano. Qualsiasi gesto, un saluto, un sorriso, una smorfia di rabbia o di compassione, suonerebbe come beffardo o una nuova umiliazione. Poi la tenda viene richiusa in fretta. La cisterna, intanto, ha fatto il pieno. Karim deve andare.
Lungo la strada Karim mugugna. Anche lui un giorno prese un gommone per l’Italia. «Li odio», dice pensando alle bande di trafficanti e ripetendo per due volte il nome di Rhoda. «Chissà, forse l’ho anche conosciuta venendo qui», si domanda. «Distruggere l’uomo – scriveva Primo Levi -. È difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti».