Lo spauracchio paventato, circa la trasformazione della Libia in una base di al-Qaeda o, quantomeno, in uno Stato islamico maldisposto nei confronti dell’Europa non sembra avere riscontri concreti. L’islam politico libico, nelle sue diverse sfaccettature, non racchiude affatto elementi più pericolosi di quelli presenti nell’islam egiziano o tunisino. La versione “moderata”, anche qui rappresentata dai Fratelli musulmani, ha vissuto un’iniziale tolleranza negli anni Cinquanta e Sessanta allorché il movimento subiva una vera persecuzione in Egitto. A partire dal 1972, i Fratelli hanno dovuto entrare in clandestinità, trasformata nel 1987 in una dura repressione in seguito a un fallito colpo di stato contro il regime. Nel 1998, le autorità libiche hanno arrestato in luoghi segreti 152 simpatizzanti della confraternita, in maggior parte docenti e studenti universitari, condannandoli solo quattro anni dopo a pene severe: due condanne a morte, 73 ergastoli, 11 pene detentive a 10 anni, e 66 scarcerazioni. I prigionieri dei Fratelli, come quelli del Gruppo islamico combattente (Lifg), l’ala “militante” dell’islam libico, non beneficiano così della “clemenza” delle autorità nei confronti dei prigionieri politici seguita all’elezione della Libia, nel 2003, a presidente della Commissione Onu per i diritti dell’uomo. Tuttavia, furono avviati dei negoziati nel febbraio 2004 con il regime circa l’introduzione di alcune riforme tanto che l’Indipendent londinese affermava solo dopo un mese che in Libia i Fratelli sono «riconosciuti per le loro campagne pacifiche e non avrebbero mai usato la violenza o perorato il suo uso».Più sfuggente appare (ma forse volutamente) la collocazione del Lifg all’interno della galassia islamista. Il gruppo, fondato nel 1991, viene erroneamente assimilato a un ramo di al-Qaeda in Libia. L’equivoco, come asserisce l’esperto di movimenti islamici Camille Tawil, nasce dalla «fusione» annunciata nel novembre 2007 congiuntamente da Ayman al-Zawahiri e da Abu al-Layth al-Libi, capo di un piccolo gruppo di libici rimasti bloccati dal 2001 nel Waziristan (dove verrà poi ucciso da un Predator americano). Nessuno o quasi, allora, ha ricordato che la leadership ufficiale del Lifg aveva condannato gli attentati terroristici dell’11 settembre, aveva sempre preso le distanze – nonostante la comune lotta in Afghanistan – dalle idee di Ossama Benladen proclamando la sua adesione al pensiero dei taleban e di Abdallah Azzam, uno sceicco molto critico nei confronti di Benladen morto in circostanze misteriose nel 2001. Nessuno o quasi ha ricordato che i libici andati a combattere in Algeria hanno sconfessato gli attacchi a danno dei civili condotti dai salafiti del Gspc e che sono stati perciò trucidati dai propri «fratelli».L’annuncio di Zawahiri, afferma Numan Ben Uthman, un ex dirigente del gruppo che ora collabora con un centro londinese contro l’estremismo religioso, aveva un unico scopo: quello di far abortire i negoziati da poco avviati tra le autorità libiche, mediante Seif al-Islam Gheddafi, e i leader del gruppo, allora tutti in carcere: Abu Abdallah al-Sadeq, l’emiro del gruppo arrestato in Tailandia; il suo vice Khalid al-Sherif, prima rinchiuso dagli americani nel campo afghano di Bagram poi consegnato alla Libia; e il responsabile degli affari religiosi Abu Mundhir al-Saidi, arrestato nel 2004 a Hong Kong e consegnato a Tripoli. Per fortuna, i negoziati proseguirono e sfociarono in una «revisione del concetto di jihad e di governo» in cui il Lifg abbandonava la lotta armata, mentre il governo ha disposto la liberazione, in diverse ondate nel 2009 e 2010, di decine di prigionieri del gruppo. Il jihad libico aveva così cessato di esistere.