Sono più di sessanta le nazioni finite nella lista nera dell'Acs (Aiuto alla Chiesa che Soffre) per gravi violazioni del diritto alla libertà religiosa dei propri cittadini. Leggi repressive, pratiche discriminatorie, violenze di gruppi di fanatici, tollerate se non addirittura incoraggiate dalle autorità, conflitti locali a connotati etnici disegnano un quadro mondiale davvero allarmante, di cui i massacri di cristiani in India o la repressione dei monaci tibetani da parte del governo di Pechino rappresentano, purtroppo, solo la punta dell'iceberg. La circostanziata denuncia della gravità della situazione mondiale è fotografata, come ogni anno, dall'ottava edizione del "Rapporto 2008 sulla libertà religiosa nel mondo", che è stato presentato ieri a Roma e " in contemporanea " in Francia, Spagna e Germania ed è frutto di un intenso e approfondito lavoro di raccolta, scavo e verifica delle informazioni sui singoli Paesi. Dal rapporto emerge con drammatica chiarezza che a una parte consistente degli abitanti della Terra non è consentito praticare in pubblico o anche in privato il proprio credo, di manifestarlo, di diffonderlo o anche di cambiarlo senza incorrere in vere persecuzioni che mettono a rischio anche l'incolumità personale e della propria famiglia. Il denso volume (quasi 600 pagine di documenti da cui sono tratte le schede di queste due pagine), pur essendo promosso da un'organizzazione cattolica, prende in esame le violenze compiute contro i fedeli di tutte le religioni. La questione è esaminata sotto vari aspetto: dal punto di vista della legislazione vigente (che limita parzialmente o del tutto la libertà religiosa o che prevede discriminazioni per certe categorie di fedeli), dei comportamenti pratici di governi, autorità locali e forze di polizia, delle minacce che alla libertà di culto vengono portate dall'intolleranza di parte della popolazione o da gruppi terroristici organizzati verso le minoranze religiose. Grande imputata sembra essere l'Asia. È nel Continente più grande che, dalla regione mediorientale a quella dell'Oriente estremo, si concentrano per intensità e numero gli attentati più gravi alla libertà religiosa. Un capitolo consistente del dossier riguarda i Paesi che, in Asia come in Africa, hanno adottato la legge islamica come legge fondamentale dello Stato. Il caso dell'Arabia Saudita, moderata in politica estera quanto durissima nella politica interna, è particolarmente esemplare. Nella patria di Maometto, infatti, è impossibile qualsiasi pratica religiosa non musulmana, anche privata. E il possesso di simboli religiosi come un crocifisso o una Bibbia viene punito con durezza. Ai lavoratori stranieri presenti sul territorio arabo viene negata ogni tipo di assistenza religiosa, anche perché si proibisce l'ingresso di ministri di altri culti. Sul rispetto di queste regole vigila un'inflessibile polizia religiosa, spesso autrice di abusi, arresti sommari e torture. A farne le spese sono anche i musulmani non sunniti. In altri Paesi islamici, come l'Afghanistan o l'Iran, invece, sono tollerate forme più o meno pubbliche di altre confessioni (non tutte), ma è vietato il proselitismo, mentre i convertiti dall'Islam ad altre religioni vengono accusati di apostasia e rischiano la condanna a morte, spesso inflitta da persone del loro stesso ambito familiare. Particolarmente perseguitati sono in questi Paesi i culti islamici di minoranza, considerati non ortodossi. Segnali di involuzione in senso integralista arrivano dal Pakistan e dall'Indonesia e dall'Eritrea. Mentre nell'Iraq liberato da Saddam si stanno verificando deportazioni e trasferimenti coatti di famiglie cristiane, costrette ad abbandonare le proprie case. Non sono solo i Paesi di religione islamica a creare problemi alla libertà di religione. In India si stanno sviluppando forme di estremismo induista che sono sfociate in autentici pogrom anticristiani, tollerati dalle autorità locali, nonostante la condanna del governo centrale. Capitolo consistente quello della Cina. Dove il governo teme una saldatura tra il dissenso politico-sociale e i leader religiosi, con conseguenze destabilizzanti per la sopravvivenza del regime. Per questo motivo i ministri delle religioni permesse (buddhismo, taoismo, islam, cristianesimo cattolico e protestante) vengono sottoposti a pesantissimi controlli. Spesso è il governo di Pechino a nominare i vescovi, senza il consenso della Santa Sede. I vescovi e i sacerdoti cattolici o i pastori protestanti che non aderiscono alle direttive governative vengono arrestati e incarcerati. Di carattere politico ma a sfondo religioso anche la repressione del movimento autonomista tibetano, guidato dall'esilio dal Dalai Lama. Un'altra categoria, infine, riguarda nazioni come l'Etiopia o le Filippine in cui vige ufficialmente la laicità di Stato e la libertà religiosa ma nelle quali gli scontri tra gruppi etnici e religiosi (in queste nazioni non si contano le aggressioni islamiche contro i cristiani) impediscono nei fatti un libero esercizio del culto.