giovedì 4 giugno 2009
Domenica il Paese va alle urne. Favorito, seppure di misura, il Partito di Dio rispetto alla coalizione di governo Ma il successo potrebbe preludere a un isolamento internazionale. Il reportage di Avvenire.
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Bambini che imbracciano armi automatiche, giovani che ti puntano il fucile davanti agli occhi, uomini in passamontagna nero che ammoniscono il passante e proclamano il Libano repubblica sunnita, e poi ancora armi, lanciagranate, vampe di fuoco, risate sardoniche e molti slogan. Non allarmiamoci: questa non è la tanto temuta guerra civile, quella che per quindici anni ha insanguinato il Paese dei cedri. La battaglia elettorale alla vigilia delle elezioni politiche del 7 giugno per il momento si combatte a muso duro solo al riparo degli schermi dei computer e delle tv, dove decine di blog e di siti riconducibili alle varie fazioni politiche si bersagliano senza riguardi. E se sui vari youtube e facebook sciiti, sunniti e cristiani si affrontano a colpi di lazzi e di improperi, nell’arena politica i toni sono apparentemente più concilianti. Ma non fidiamoci più di tanto: sotto la coltre di un aplomb scimmiottato dalle democrazie occidentali (e che un po’ ha finito per ingannare gli stessi osservatori dell’Unione europea), il sottosuolo libanese arde di passione e di odii secolari, e a pochi giorni dal voto sembra quasi di udire il brulichio di un immenso pallottoliere dove si fanno e si disfano i conti dei seggi e dove su tutto e tutti domina un sentimento inedito che assomiglia molto alla paura: la paura di vincere le elezioni. Paradosso mediorientale fra i tanti, quest’ultimo è uno dei più bizzarri. Sulla carta – i sondaggi in questo Paese sono pressocché inattendibili – il Partito di Dio, la formazione guidata dallo sceicco Hassan Nasrallah dovrebbe aggiudicarsi una vittoria di misura. Vittoria che però all’ultimo momento potrebbe sfuggire di mano ad Hezbollah e premiare la coalizione di governo (sunniti, cristiani, drusi di Jumblatt), filooccidentale e sostenuta dalle nazioni arabe moderate, che a sua volta la ricederebbe volentieri all’opposizione sciita di Amal e Hezbollah, alleata con i cristiani del Movimento patriottico del generale Aoun. Il perché nessuno giochi per vincere è facilmente spiegabile, a patto di addentrarsi per un istante nella tortuosità libanese: se vincesse il movimento di Nasrallah il Libano finirebbe inevitabilmente per perdere molti degli aiuti internazionali (il fiume di denaro che scorre da Riad, ma anche quello fornito dal Consiglio di cooperazione del Golfo oltre ai 60 milioni di euro annui elargiti dall’Unione europea) ed Hezbollah rischierebbe di diventare una seconda Hamas, democraticamente eletta ma impresentabile sul piano internazionale e a forte rischio su quello interno.«Il mondo – dice Abdallah Kassir, direttore di Al Manar, la seguitissima tv del Partito di Dio - ha di noi un’immagine distorta: Hezbollah è un movimento nazionale che vuole un Libano unito e pacifico. E le elezioni libanesi del 7 giugno saranno calme, l’unico pericolo viene da Israele». Propaganda pura, come d’uso, ma che contiene un briciolo di verità: Hezbollah, che oltre che movimento politico, milizia territoriale, gruppo armato è anche parte del governo e rappresenta autenticamente una parte del Paese, ha il sacro terrore di trovarsi a dover governare. Meglio dunque, lasciano filtrare gli uomini vicini a Nasrallah, un governo di unità nazionale anche in caso di vittoria del Partito di Dio. Ma non è detto che il disegno sia attuabile. Non a caso il leader dell’Alleanza del 14 marzo, Hariri, ha già fatto sapere che in caso di vittoria di Hezbollah i suoi non entreranno nel nuovo gabinetto.Ad arroventare sotto traccia il clima politico si è aggiunta quella vera e propria bomba mediatica costituita dalle indiscrezioni del settimanale tedesco Der Spiegel, secondo il quale dietro l’omicidio del premier Rafik Hariri non ci sarebbe la Siria, bensì Hezbollah stesso. Ma non dimentichiamo la gigantesca operazione di disinfestazione che ha portato allo smantellamento di una rete di spie e informatori sul libro paga del Mossad israeliano, molti dei quali infiltrati in posti chiave dell’esercito e dei servizi segreti. Tutta benzina sul fuoco delle polemiche.La paura tuttavia non impedisce il perpetuarsi delle consolidate dinastie libanesi: alle elezioni si presentano infatti figli e nipoti di libanesi illustri, spesso segnati dalla violenza politica che si appuntano al petto come un palmarès, e non stiamo parlando solo del sunnita Saad Hariri (figlio di Rafik, il premier assassinato che attende ancora di dare un nome ai propri carnefici), o dei cristiano-maroniti Gemayel (che schierano il figlio del defunto Bashir, Nadim, insieme al cugino Sami, fratello di Pierre, il figlio dell’ex presidente Amin assassinato nel 2006), ma anche del giovane Franjieh (nipote del presidente e figlio di Tony, a sua volta assassinato), della greco-ortodossa Nayla Tueni (nipote di Ghassan e figlia di un parlamentare anch’esso ucciso), del cristiano Michael Moawad (figlio di René, eliminato nel 1989), di Alain Aoun (nipote del generale cristiano alleato con l’opposizione sciita, il quale schiera anche il proprio genero Gebran Bassil).Domenica dunque si eleggeranno i 128 parlamentari libanesi, che – come vogliono le regole imposte dagli Accordi di Taif – daranno vita a un’assemblea equamente ripartita fra cristiani  e musulmani. Ma sarà la conta interna ai due schieramenti a stabilire chi avrà vinto davvero. Per questo si punta molto sugli indipendenti: perché – per lo meno formalmente - non vi sia nessun vincitore ufficiale. Ovvero perché nulla davvero cambi. In attesa di sapere l’esito di un voto altrettanto cruciale: quello del 12 giugno a Teheran, grande elemosiniere ed occhiuto protettore di Hezbollah.
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