martedì 10 settembre 2024
Vanuatu, Fiji e Samoa, gli staterelli insulari del Pacifico che rappresentano una piccola frazione della popolazione mondiale, chiedono giustizia per il surriscaldamento che le sta uccidendo
Una protesta ambientalista alle isole Fiji

Una protesta ambientalista alle isole Fiji - Reuters

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La portata dell’iniziativa è inversamente proporzionale alla grandezza dei Paesi che l’hanno promossa. Vanuatu, Fiji e Samoa, gli staterelli insulari del Pacifico che rappresentano una piccola frazione della popolazione mondiale, hanno formalmente chiesto alla Corte penale internazionale (Cpi) di classificare l’ecocidio tra i crimini perseguibili al pari del genocidio e dei reati di guerra. Il termine ecocidio, inteso come danneggiamento grave e sistematico degli ecosistemi, è stato coniato nel 1970 dal biologo americano Arthur Galston che, durante la guerra del Vietnam, fece campagna per fermare l’uso dell’“agente arancio”, l’erbicida allora utilizzato per defogliare i campi di battaglia e danneggiare il raccolto dei Viet Cong. Sono solo una dozzina, oggi, i Paesi del mondo che lo contemplano come reato. L’Unione Europea lo ha di fatto introdotto nel diritto comunitario lo scorso febbraio.
L’ambizione dei tre piccoli governi del Pacifico meridionale è elevarlo a crimine perseguibile a livello internazionale dalla Corte dell’Aja come avviene per i reati contro l’umanità.

La mossa è disperata. Nasce dall’urgenza di inchiodare alle proprie responsabilità i “grandi” del Pianeta ovvero i responsabili della maggior parte dell’inquinamento all’origine del cambiamento climatico di cui i “piccoli” subiscono le conseguenze più gravi. L’innalzamento del livello del mare, per esempio, è per Vanuatu, Fiji e Samoa, e per tutte le piccole isole oceaniche, una questione «di vita o di morte». Concreto è il rischio che i loro arcipelaghi sprofondino lentamente negli abissi sparendo per sempre dalle cartine geografiche. Se l’ecocidio diventasse davvero un crimine internazionale potrebbero, in teoria, essere perseguiti penalmente i manager delle multinazionali responsabili degli sversamenti di petrolio o dell’uso sproporzionato dei combustibili fossili. Anche i capi di governo potrebbero finire nel mirino dei giudici dell’Aja per aver consapevolmente contribuito al degrado ambientale assecondando, per esempio, la deforestazione dell’Amazzonia.

Il percorso di giustizia climatica intrapreso dai tre Stati insulari non sarà facile. Perché la loro definizione di ecocidio (»atto illecito o arbitrario commesso con la consapevolezza che esiste una probabilità sostanziale di causare danni gravi, estesi o duraturi all’ambiente») venga inserita tra i crimini di competenza della Corte penale internazionale deve essere effettuata una modifica allo Statuto di Roma del 1998 da portare al vaglio delle Nazioni Unite. A mettersi di traverso potrebbero esserci “pezzi da novanta” come Cina, Russia, India e Stati Uniti che, del resto, non sono neppure membri della Cpi. La diplomazia, certo, potrebbe portare nel tempo a svolte al momento difficili anche solo da immaginare. Ma resta, poi, il problema dell’effettiva applicazione del diritto internazionale. A cosa serve, si chiedono gli scettici, codificare l’ecocidio se la storia è segnata da diversi casi impunti di genocidio? Secondo Jojo Mehta, co-fondatrice dell’associazione Stop Ecocide International, la mossa è importante come “deterrente”. «La legge penale pone chiari confini morali oltre che legali – sottolinea – chiarendo che livelli estremi di danno non sono solo illegali ma totalmente inaccettabili».

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