Nashnush è in serio imbarazzo. Dice: «Eh, mister George...», e non si capisce se mi sta commiserando o a modo suo – e per un libico nato a Tripoli non è cosa facilissima – si sente un po’ in colpa. Ma anche Yassir, che mi risponde da Beirut, è imbarazzato. «Lo sai anche tu come vanno le cose, amico mio...». La domanda che avevo fatto al libico e al libanese (i cognomi convenzionalmente evitiamo di menzionarli, visto il compito delicato che svolgono nei rispettivi Paesi) era la stessa: da dove provengono le armi per i miliziani del Califfato? Anche la loro risposta è stata identica. «Da quando è caduto Gheddafi, dal Fezzan passa di tutto: petrolio, armi, droga, organi umani e combattenti del Daesh. Ma queste cose tu le sai da tempo ». A conferma della sua lunga militanza nell’intelligence dell’Armée
Libanaise, Yassir spiega con dettagliata precisione: «Ci sono due rotte, quella italiana e quella balcanica. La prima la gestiscono i libici e servono tutti, compreso il Daesh e al-Qaeda, i Boko Haram del Mali e quelli della Nigeria e soprattutto i residenti in Europa che vogliono comprare armi da guerra. Uno dei porti di transito dovresti conoscerlo bene, visto che è Gioia Tauro». La seconda rotta, quella di cui si sono a lungo serviti gli uomini del califfo al-Baghdadi, passa dall’Afghanistan all’Iran, attraversa quella terra di nessuno che tutti chiamano ormai Siraq e utilizza Istanbul e i porti anatolici meridionali per il mercato nordeuropeo. «La prima scelta la fa il Daesh – spiega Yassir – che da almeno un anno ha cominciato a richiedere armamenti pesanti, il resto prende la via dei Balcani. Ma non tutte le armi arrivano del Medio Oriente...» Di più Yassir non dice, ma noi sappiamo che fino a poco tempo fa il califfo è stato generosamente armato dalla stessa Turchia: più di un’inchiesta giornalistica e molteplici ricognizioni satellitari hanno potuto riconoscere i convogli carichi di armi che Ankara inviava al Daesh in Siria e in Iraq non solo in funzione anti-Assad, ma soprattutto per contenere la guerriglia curda, che è la vera spina nel fianco del presidente Erdogan. In buona sostanza, un gigantesco mercato nero delle armi arricchisce l’intera catena, dai Paesi produttori ai grossisti ai trafficanti al dettaglio. Le cifre – citiamo quelle relative al 2014 dell’autorevole
Stockholm International Peace Research Institute – sono da capogiro: in testa a tutti ci sono gli Stati Uniti, con 10,1 miliardi di dollari di export e acquirenti di rango come l’Arabia Saudita (1,2 miliardi di dollari), l’India (1,13), la Turchia (1,1) e Taiwan (1,04), seguiti dalla Russia (6 miliardi di dollari di export e clienti importanti come India, Cina, Afghanistan e Iraq), dalla Francia (quasi 2 miliardi di export destinati prevalentemente a Marocco, Cina, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti), dalla Gran Bretagna (1,7 miliardi di dollari e i sauditi fra i clienti fissi. Non manca, è ovvio, l’Italia. Nel 2013 ha venduto armi alla Libia per 3 milioni di dollari. Pochissimo, se pensiamo che l’Arabia Saudita utilizza il 10% del proprio Pil in spese militari e compra mediamente armi per 2 miliardi e mezzo di dollari ogni anno. Un business globale che sfiora (per difetto) i 100 miliardi di dollari capace di fornire un Kalashnikov per meno di tremila euro. Non è una novità. Già il 12 maggio scorso papa Francesco denunciava: «Tante persone potenti non vogliono la pace perché vivono delle guerre attraverso l’industria delle armi», per poi aggiungere nei giorni scorsi: «C’è chi si consola dicendo: sono morti “solo” venti bambini. Siamo diventati pazzi! Milioni di morti e tanti soldi nelle tasche dei trafficanti di armi. Si producono armi per bilanciare le economie...» Ma come paga le forniture di armi il Daesh? E qui dobbiamo aprire un capitolo forse ancora più imbarazzante (di qui le reticenze di Nashnush e Yassir) di quello del mercato delle armi. Perché il califfo usa pagare in petrolio o con i proventi del medesimo.
Oil for weapon, se vogliamo semplificare. Come è noto, da almeno un anno il Daesh controlla controlla la maggior parte dei giacimenti petroliferi siriani e la vendita di greggio rappresenta la sua principale fonte di finanzia- mento. Secondo una recente inchiesta del
Financial Times, il Daesh guadagna ogni giorno 1,5 milioni di dollari dalla vendita del greggio estratto nei territori sotto il suo controllo, come la provincia siriana orientale di Deyr az Zor al confine con l’Iraq, ma anche il giacimento di Qayyara, vicino alla città irachena di Mosul, senza contare l’area fortemente contesa del giacimento petrolifero di Jazal e di quello di gas di Shaer, nella provincia di Homs. Il trasporto avviene (o meglio, avveniva, perché da quando è entrata in campo la Russia le incursioni dei cacciabombardieri Su 34 sulle infrastrutture petrolifere si sono moltiplicate e hanno messo in crisi il sistema) tramite convogli di autocisterne che scaricano il greggio al mercato di Al Qaim, sul confine iracheno, ma anche in raffinerie gestite direttamente dagli uomini del Califfato o da operatori locali che si spartiscono il ricavato con gli stessi jihadisti. In pratica, un autentico mercato parallelo. Ma chi compra quel petrolio? Soltanto i locali? Certo che no: come ha ammonito Putin al G20 di Antalya, fra i clienti del dell’oro nero made in Daesh (il cui prezzo si rapporta quello del fixing di New York) c’erano
anche Paesi membri di quello stesso vertice. Secondo l’Iraq
Energy Institute, dai pozzi che fino a un paio di mesi fa controllava il Daesh estraeva 30 mila barili di petrolio al giorno in Iraq e 50 mila in Siria, ricavandone in totale 3 milioni di dollari al giorno, ovvero 97 milioni al mese. Ma abbiamo scordato i finanziatori privati del califfo: la Turchia, gli Emirati, il Qatar, il Kuwait, il Bahrein. E, perché no?, l’Arabia Saudita. Finanziamenti impossibili da quantificare: siamo di fronte a frontiere labili, schieramenti opachi, manovre ambigue. Si può battere il Daesh così? Potessero parlare, Yassir e Nashnush direbbero anche qui la stessa cosa: «È il Medio Oriente, bellezza, e tu non puoi farci niente».