Il rischio di contrarre il virus Hiv usando i preservativi durante i rapporti sessuali è nell’ordine del 15%. Questa conclusione è contenuta in uno studio pubblicato dalla nota rivista scientifica britannica
The Lancet (che ha così duramente criticato il Papa sopo il suo viaggio in Africa), nel 2000. È una delle conferme scientifiche di quanto affermato da papa Benedetto XVI la settimana scorsa in Africa, ovvero che l’Aids non si sconfigge distribuendo i preservativi, ma attraverso un’educazione alla dignità umana. A sostenere la correttezza scientifica della posizione del Papa non è dunque soltanto Edward Green, il celebre studioso di Harvard le cui posizioni sono state riportate su Avvenire del 21 marzo. Al contrario, sfogliando le riviste scientifiche e mediche di questi vent’anni di lotta all’Aids, troviamo numerose conferme alla fallibilità dei profilattici. L’effetto «cinture di sicurezza». Riprendendo il citato articolo del
Lancet ( John Richens, John Imrie, Andrew Copas, Condoms and seat belts: the parallels and the lessons) si fa un interessante parallelo con le cinture di sicurezza per gli incidenti automobilistici, che (anche loro) non hanno portato i benefici sperati. In pratica, sostengono gli autori dello studio, il senso di sicurezza moltiplica i comportamenti a rischio. È il fenomeno noto come «teoria della compensazione del rischio ». Nel caso dei preservativi la responsabilità è di chi sostiene siano «la» soluzione definitiva del problema, inducendo perciò un senso di falsa sicurezza che moltiplica i rapporti promiscui, principale causa della diffusione della malattia. Ciò è dimostrato dal fatto – sostiene lo studio – che in Africa i Paesi dove il preservativo è più diffuso (Zimbabwe, Botswana, Sudafrica e Kenya) sono anche quelli con i tassi di sieropositività più alti. «L’efficacia del preservativo – concludono i ricercatori – è legata soltanto al reale cambiamento dei comportamenti a rischio». Preservativo troppo rischioso. Sui tassi di inefficacia del profilattico concordano molti studi scientifici. Secondo una ricerca condotta da S. Weller e K. Davis e pubblicata su
Family Planning Perspective (una rivista scientifica dell’Alan Guttmacher Institute, emanazione dell’organizzazione abortista "International Planned Parenthood Federation"), l’efficacia del preservativo nel prevenire la trasmissione dell’Hiv è stimabile intorno all’ 87%, ma può variare dal 60 al 96%. Dati confermati anche dallo studio di J. Trussell e K. Yost e presentati (senza che si levassero voci scandalizzate) alla Conferenza Onu di Rio de Janeiro nel 2005. Ancora su
Family Planning Perspective viene citato uno studio di Margaret Fishel secondo cui in coppie sposate con un partner sieropositivo, l’uso del preservativo come protezione ha prodotto l’infezione dell’altro partner nel giro di un anno e mezzo nel 17% dei casi. Perché i preservativi non funzionano. Uno studio presentato nel 1990 sul
British Journal of Family Planning mostra che in un test effettuato in Inghilterra nel 52% dei casi, gli utilizzatori del profilattico ne hanno sperimentato la rottura o lo scivolamento. C. M. Roland, scienziato esperto del lattice e direttore di Rubber Chemistry Land Technology, nel 1992 spiegava in una lettera pubblicata dal
Washington Times che già nella prevenzione delle gravidanze si registra un 12% di fallibilità malgrado i pori del lattice (5 micron) siano 10 volte più piccoli dello sperma. Una fallibilità che aumenta esponenzialmente nel caso del virus dell’Aids perché questo ha una dimensione di 0,1 micron, ovvero può facilmente trovare un passaggio nel profilattico anche ipotizzando un suo uso ottimale. Questi rischi sono ancora più elevati in Africa perché il caldo e le modalità di conservazione dei profilattici contribuiscono notevolmente a deteriorare il lattice. Il metodo ABC. Sono ancora gli studi scientifici a dimostrare che l’arma davvero efficace contro il virus dell’Aids – oltre ovviamente ai farmaci antiretrovirali, di cui anche il Papa ha ricordato l’importanza – è l’educazione alla integralità dell’uomo, che in termini di strategie è stata tradotta nell’ABC: (A, astinenza), fedeltà a un unico partner ( B, be faithful)), C ( condom, preservativo), dove l’accento è messo soprattutto sulle prime due strade. È il caso dell’Uganda, l’unico Paese dove si sia riscontrata una diminuzione nel tasso di incidenza dell’epidemia, a dimostrare la bontà di questo approccio, scelto dal presidente Museveni già all’inizio degli anni ’ 90. Secondo un rapporto di UsAid (l’agenzia governativa statunitense che si occupa di aiuti allo sviluppo) in 15 anni c’è stata una riduzione nel tasso di infezioni del 75% nel gruppo di età tra i 15 e i 19 anni, del 60% tra i 20 e i 24 anni, e del 54% nel suo complesso. E questo perché è stato ridotto del 65% il sesso con partner casuali. Questa conclusione viene condivisa dalla rivista Science con un articolo pubblicato già nel 2004 in cui si esclude che l’uso dei profilattici abbia avuto un ruolo significativo nella positiva evoluzione. Dato ulteriormente confermato dalla lunga ricerca condotta sul campo, in Africa, da Helen Epstein, che ha raccolto i dati in un libro pubblicato nel 2007 ( La cura invisibile: l’Africa, l’Occidente e la lotta contro l’Aids), in cui attacca l’Occidente perché si ostina a ignorare che l’unica strategia che funziona contro l’Aids è, appunto, la «cura invisibile» , ovvero l’educazione, il cambiamento dei comportamenti sessuali.