Ci sono voluti quasi dieci anni esatti, da quel maledetto 11 settembre 2001, per togliere definitivamente dalla scena Osama Benladen, l’ideatore e regista della strage destinata a restare, molto probabilmente, il più famoso attentato terroristico della storia. Con la sua morte le vittime delle Twin Towers, del Pentagono e dei quattro aerei utilizzati come bombe volanti sono state vendicate e giustizia è stata fatta. Ma il vero epitaffio sul sogno criminale di un nuovo califfato, purificato a suon di stragi e sgozzamenti dai qaedisti e dai loro emuli, è stato posto da quelle rivoluzioni che proprio nel corso del 2011 hanno dato luogo alla 'Primavera Araba', la più inattesa e sorprendente stagione politica che potevamo immaginare. Sono state proprio le rivoluzioni arabe a togliere spazio a chi voleva che la declinazione politica dell’islamismo non potesse che essere radicale e violenta. Sono state le rivoluzioni arabe a conseguire quegli obiettivi che nessuna strage jahadista era mai riuscita ad assicurare: cambiare le leadership, rovesciare i regimi, ridare fiducia e protagonismo agli esclusi. Il loro successo ha anche riportato speranza alla possibilità che le società arabe e musulmane possano conoscere una loro via graduale, non lineare, talvolta contraddittoria verso la costruzione della democrazia. Una democrazia che non derivi dall’impulso esterno, ma semmai da uno slancio interno. In questo, a noi occidentali, hanno rammentato che esiste una terza possibilità tra l’immobilismo della tirannide e l’esportazione manu militari della democrazia. Proprio questa seconda strada era stata tentata dopo l’11 settembre, in un approccio che coniugava tanti e diversi elementi: la hybris per la tremenda inconcepibile violenza patita con l’11 settembre, la fiducia totale nello strapotere militare, politico ed economico della superpotenza solitaria, e l’assoluta sfiducia nelle capacità delle società arabe di emanciparsi da sole da secoli di decadenza. Le guerre in Afghanistan e in Iraq, con il loro spaventoso numero di morti, centinaia di migliaia di morti, sono state in fondo il frutto di questo atteggiamento insieme ambizioso e senza speranza. Certo, la prima è stata e resta un intervento legittimato dalla sanzione ufficiale di una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, mentre la seconda si è configurata come una decisione puramente 'politica', di un’idea di politicità che cercava col diritto un terreno di separazione e non di incontro. Ma rimane il fatto che quelle guerre mediorientali sono inscritte, determinate dall’11 settembre e dai suoi prodromi, tanto quanto quello che sta attraversando oggi il Medio Oriente è nuovo e rivoluzionario, comunque vada a finire. Con l’eccezione, ovvia e terribile, della questione israelo-palestinese, che appare l’opposto di quel che esprime il cambiamento, e che è forse la sola cosa che ci riporta a Benladen e alle Torri Gemelle, perché l’odio che si sprigiona da quell’irrisolto (ma per nulla irrisolvibile) conflitto ha contribuito ad alimentare anche l’11 settembre e perché in troppi, in Palestina e in Israele, continuano a investire sull’odio e sul disprezzo per l’altro piuttosto che su una pace giusta e decorosa. Attraverso le guerre mediorientali, in questi dieci anni, abbiamo visto progressivamente consumarsi il primato degli Stati Uniti: in termini di potenza, ovviamente, ma anche in termini 'morali'. Il mondo si era stretto intorno ai totem fumanti delle Twin Towers, e tutti avevamo ammirato, commossi la tempra di quei poliziotti e di quei pompieri che, lentamente, salivano quelle scale che li avrebbero portati simultaneamente alla morte e all’immortalità, come in una tragedia greca o in una saga nordica. Quell’immagine era quella che nel 'secolo americano' avevamo progressivamente scolpito nei nostri cuori, un’eco di eroismo minuto e grandioso, di dovere che si compie senza troppo star lì a indulgere in retorica, perché ci sono cose che nella vita vanno fatte, anche se ci condurranno alla morte. Quell’America era stata unita dal dramma indicibile e aveva coalizzato intorno a sé il mondo. Persino l’Iran di Kahtami aveva offerto la sua attiva collaborazione quando gli americani avevano deciso di andare a riprendersi Benladen sulle montagne di Tora Bora, poiché i talebani si erano rifiutati di consegnarlo. Oggi l’America è un Paese diviso, perché i dieci anni passati dall’11 settembre ne hanno progressivamente polarizzato gli umori, alimentando il sospetto che troppe cose siano state taciute, troppi errori commessi, troppi insuccessi raccolti. La sua poderosa forza militare si è rivelata non risolutiva. La più grande concentrazione di forza mai vista nella storia è sì riuscita ad abbattere due regimi che nessuno rimpiangerà, ma non a 'vincere la pace'. Complessivamente, dieci anni dopo, è l’intero Occidente che appare più in difficoltà, ripiegato su se stesso non solo a causa della crisi economica, che guarda attonito, incapace di reagire, il centro del mondo spostarsi verso Sud e verso Oriente. Il declino americano, tante volte annunciato a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, sembra davvero aver preso avvio. È un declino che, con buona pace di chi vedeva nell’iperpotenza degli Stati Uniti una delle cause principale del nanismo politico dell’Europa, non vede riaffermare una centralità politica del vecchio continente. Proprio in questi giorni apprendiamo che persino il tabù della fine dell’euro si è infranto, se quasi la metà dei banchieri d’Eurolandia crede che entro tre anni l’euro potrebbe essersi estinto. E mentre cala la fiducia nel nostro comune futuro, le distanze tra le capitali d’Europa tornano a crescere: quasi che nonostante l’alta velocità, a far la spola tra le cancellerie siano tornati i messaggeri a cavallo dei tempi di Federico il Grande, re Luigi o Maria Teresa. E anche l’Atlantico, l’Oceano Occidentale per eccellenza, si è nuovamente allargato. I giornali scriveranno quasi tutti il contrario in questa settimana che ci porterà solennemente al decennale del giorno terribile in cui abbiamo visto corpi che cadevano, scalciando sgraziati nel vuoto per sfuggire all’immane calore che scioglieva acciaio, vetro e cemento, ma anche ossa e carne e polmoni. Oltre il ricordo, cosa resta nella nostra quotidianità di quel giorno infinito?