domenica 10 ottobre 2010
Secondo l’Onu, l’accanirsi sulle donne durante i conflitti armati non costituisce un episodio casuale, ma fa parte di una ben precisa strategia militare, per umiliare il nemico, cancellare etnie e diffondere malattie come l’Aids. In Bosnia almeno 20 mila donne violate in appositi «campi». In Ruanda quasi mezzo milione. «Non è solo bestialità, è gelido calcolo militare e strategico».
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Datiwa non potrà dimenticare. Il sole basso, rosso come il fuoco, sembrava incendiare i rami dei baobab. E poi quella brutalità bestiale. Aveva 15 anni. «Quando sono tornata al villaggio, ho scoperto che non solo io, ma anche le altre donne, anche mia madre e mia nonna, erano state violentate dai militari».Congo, Liberia, Ciad, Darfur, Cecenia, Kirghizistan, Afghanistan, Messico, Haiti. Non c’è continente che sia immune dal crimine di stupro commesso in zone di conflitto. L’immaginario collettivo vede nella violenza sulle donne l’impulso di militari imbarbariti dalle guerre. «Non è esatto. Lo stupro non è un effetto collaterale». Margot Wallström è categorica. Per il rappresentante speciale dell’Onu contro le violenze sessuali nei conflitti armati, gli abusi nel corso di guerre «sono una delle principali sfide del nostro tempo, una vera arma tattica usata dagli eserciti».Non si tratta solo di umiliare le etnie "nemiche". Lo scopo è di dividere le famiglie, cancellare interi gruppi, diffondere malattie come l’Aids e soggiogare le popolazioni anche per il tempo a venire. Un’arma non convenzionale adoperata per compiere il genocidio, fisico e psicologico, di intere popolazioni. «Mio marito mi ha ripudiata – ha raccontato a un osservatore Onu Miryam, congolese madre di due figlie, in attesa del terzo –. Mi ha detto di tornare dai miei genitori insieme ai nostri bambini. Poco tempo dopo ho scoperto di essere rimasta incinta durante i giorni delle violenze. Ci avevano rinchiuse in tante, e ci prendevano anche cinque volte al giorno. Adesso, quando esco, la gente dice che mio marito mi ha scacciata».Come se neanche la storia recente sia riuscita a insegnare granché. Il bagno di sangue nella ex Jugoslavia del resto ha fatto scuola. Nella dissolta federazione balcanica alla fine degli anni 90 vennero istituzionalizzati i "campi di stupro". Si stima che in Bosnia durante la guerra circa 50mila donne siano state violentate. Qualche anno prima in Ruanda, durante il genocidio del 1994, furono brutalizzate tra le 250 mila e il mezzo milione di donne d’ogni età.E pensare che già nel 1863 il presidente americano Abramo Lincoln diede l’ordine alle truppe unioniste di astenersi da qualsiasi violenza sessuale, che da quel momento sarebbero state considerate «una grave violazione». Da allora i trattati internazionali e le convenzioni sul Diritto di guerra hanno rincarato le pene contro chi si macchia di questi crimini. Ma poi, nella realtà, a pagare sono in pochi. Secondo Amnesty International, per le 50mila donne abusate in Bosnia solo per una trentina di casi è stato istruito un processo: 18 davanti al Tribunale internazionale dell’Aja e 12 dai giudici del Tribunale per crimini di guerra di Sarajevo. Oltre ai traumi riportati, le vittime di questi crimini di guerra, ha spiegato l’investigatore di Amnesty, Marek Marczynski, vengono anche stigmatizzate dalla società: «Molte non osano parlare pubblicamente, perché numerosi autori di tali violenze vivono nelle loro stesse comunità dove hanno assunto posizioni di potere».La riprova viene ancora da Est. Appena quattro mesi fa il Kirghizistan è stato teatro di una fiammata antietnica che ha colpito la minoranza uzbeka che vive nel Sud della Repubblica centroasiatica. Fra i rifugiati si contano almeno 40mila tra donne e bambini testimoni di incendi, saccheggi, stupri e omicidi di massa. La brutalità anche in queste aree non è mai frutto delle bestiali pulsioni degli uomini in divisa o dei paramilitari. Fa parte dei piani di attacco, esattamente come ne fanno parte le manovre dei battaglioni corazzati o i colpi dell’artiglieria pesante. «L’uno – racconta un osservatore Onu impegnato a ricostruire i fatti dei recenti scontri in Congo – non esclude l’altro. Strano a dirsi, ma al tempo degli eserciti ipertecnologici, armi convenzionali ed armi non convenzionali sono complementari».La recente Risoluzione 1820 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha condannato lo stupro in quanto vera arma di guerra, sostenendo che fermare la violenza sessuale nelle zone di conflitto è un mezzo importante per mantenere la pace e la sicurezza a livello internazionale. Il documento è stato approvato all’unanimità nel giugno del 2008, ma pochi mesi l’impegno fu violato proprio da chi lo aveva preso. Nell’agosto successivo, in Georgia la Russia aveva ricalcato le strategie belliche adoperate in Cecenia. Secondo un rapporto dell’Unione europea dedicato al conflitto lampo, in quella regione accanto ai carri armati e ai sofisticati team informatici protagonisti della guerra elettronica, venne affiancata un’arma infame. «Diversi elementi – si legge nell’investigazione di Bruxelles – suggeriscono che la pulizia etnica è stata praticata contro la popolazione georgiana dell’Ossezia del Sud durante e dopo il conflitto». Se per un verso l’Ue sostiene che da entrambi i lati sono stati commessi diversi crimini in violazione del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, solo da una parte sono arrivati «attacchi indiscriminati, trattamenti degradanti, stupri, assalti, prese di ostaggi ed arresti arbitrari», commessi consapevolmente «anche dopo il cessate il fuoco». I colpevoli? «Le milizie dell’Ossezia del Sud e i militari irregolari, non controllati adeguatamente dalle forze russe».
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