martedì 15 luglio 2014
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​Camminano lenti nel tetro corridoio di cemento, sbarre girevoli e filo spinato, affardellati da borsoni e masserizie, i bimbi più piccoli in braccio, gli uomini davanti, le donne dai visi incorniciati dall’hijab a seguire, gli occhi che raccontano il continuo mescolarsi di sollievo e strazio in una silenziosa processione che non dimenticheranno mai.
Ma Abushaban, Anmasalih, Menaf Mesalem, la piccola Asma e tutti gli altri sanno che debbono la propria salvezza alla fortuna di avere una doppia nazionalità. Solo così, insieme a ottocento altri palestinesi con passaporto americano, canadese, britannico, rumeno, turco, estone hanno potuto oltrepassare il check-point di Hamas, quello dell’Autorità Nazionale Palestinese e infine quello israeliano e uscire da quell’inferno a cielo aperto in cui si è trasformata da otto giorni a questa parte la Striscia di Gaza e ricoverarsi in Giordania da dove riprenderanno la via della loro seconda patria.
«È stata una follia venire in vacanza qui – ammette il dottor Akram Mushtaha, che a Gaza è nato ma che ora risiede a Houston in Texas –, l’importante era mettere in salvo le mie due figlie, che non erano mai state in Palestina. E che forse non ci vorranno tornare per il resto della loro vita». Anche Ayed al-Hamdani non tornerà più: «Vivo in Norvegia da 17 anni. Qui non c’è speranza».
«È impossibile rimanere dentro Gaza – conferma Mahmoud –. Ci abbiamo provato, ma ora torniamo in Canada. I miei figli sono sotto choc, non si può dormire, l’incubo delle bombe ti perseguita. Bombe chirurgiche, le chiamano, ma com’è che il settanta per cento dei morti sono civili? Hamas ha pesanti responsabilità, dico: le batterie di Qassam e di missili sono ovunque...».
Mahmoud non risponde. Il suo sguardo vaga sullo zoccolo biancastro che a perdita d’occhio delimita l’insediamento umano a più alta densità del mondo che ha appena abbandonato e non è temerario scorgervi un doloroso senso di colpa. Perché a pochi chilometri di distanza, a Beit Lahya, almeno diciassettemila palestinesi stanno anch’essi abbandonando le proprie abitazioni. Ma non andranno lontano, si ammasseranno nei rifugi dell’Onu, nelle scuole, sotto certi androni, aspettando l’attacco che verrà dal cielo.
Sono i meno fortunati, la moltitudine di anime che da Gaza non potrà mai andarsene e che periodicamente sconta la follia di questa guerra asimmetrica fra il gigante israeliano e la ribollente enclave appoggiata alla costa, due milioni di palestinesi chiusi in un serraglio dove il radicalismo di Hamas è dominante e dove il braccio armato del movimento, le brigate Ezzedin al-Qassam da sei anni dà il via a una liturgia di guerra sempre identica a se stessa: era così nel 2008-2009 con l’operazione Cast Lead, poi nel 2012 con Pillar of Defense, rimane uguale oggi con Protective Edge (Margine protettivo).
Il risultato non cambia: centinaia di morti nella Striscia, case distrutte, famiglie smembrate, migliaia di feriti e di là, in Israele, perdite contenute ma il dilagare di un’insicurezza che può farsi tormento, psicosi, bisogno di fuggire, come molti russi emigrati nei decenni scorsi a Tel Aviv stanno cominciando a fare, ora che i droni di Hamas e i pur imprecisi razzi a media gittata riescono a sorvolare il centro e il nord del Paese. Improvviso scatta l’allarme. Non è la prima volta che sentiamo l’ululato roco della sirena. Ora risuona anche a Haifa, sulle alture del Golan, a Tel Aviv. L’arsenale di Hamas si è arricchito di armi più sofisticate. «Ora hanno i droni anche loro», commentano a Gerusalemme Est. È vero, sono gli Ababil di produzione iraniana. Non si sa quanto armati né quanto precisi, ma il costoso sistema di difesa israeliano Iron Dome ne ha abbattuto uno domenica. Altri, a quanto si apprende, stavano volando ieri sera in direzione di Tel Aviv.
Scende la sera e avvolge in un tramonto colorato di straziate dita vermiglie la fortezza assediata di Gaza. Una cintura di Merkava – i famigerati tank con la stella di David ispirati al carro di fuoco del profeta Ezechiele – avvolge il perimetro nord della Striscia, preludio tattico e psicologico di un attacco di terra che sembra inevitabile, in mancanza di una soluzione diplomatica. Che pure ci sarebbe: cessate il fuoco, smilitarizzazione della Striscia e consegna degli arsenali da parte di Hamas, liberazione dei 56 fra operativi e deputati arrestati da Israele in Cisgiordania e la riapertura dei valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto.
Sembrerebbe a portata di mano, ma non lo è. «I still need a place to go», ho ancora bisogno di un posto dove andare, canta Neil Young. Il suo concerto a Tel Aviv è stato annullato ieri. Troppo rischioso, hanno detto.
*inviato a Gaza, Valico di Erez
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