Ansa
I detrattori la chiamano «operazione pistacchio». Perché le armi israeliane hanno colpito a Ishafan, dove vecchio e nuovo Iran degli ayatollah convivono: l’aeroporto da cui partono i raccolti delle piantagioni, a due passi da una centrale nucleare dove si teme vengano sviluppati i programmi per la bomba atomica, nel perimetro industriale dei micidiali droni kamikaze “Shahed” inviati a Putin.
Ora la miccia accesa è di nuovo tra le mani di Teheran, che deve decidere se e come rispondere: tornare ad attaccare il suolo israeliano come una settimana fa, o proseguire attraverso gli Hezbollah in Libano, gli Houti nello Yemen, e la “legione straniera” guidata dai Pasdaran in Siria e Iraq?
«Lo scialbo attacco di Israele dimostra che Netanyahu non ha alcuna strategia sull’Iran così come su Gaza», sostiene Anshel Pfeffer, il biografo non autorizzato del premier israeliano. Da Tel Aviv per tutta la giornata non è arrivata alcuna conferma ufficiale. Salvo quella indiretta del solito Ben Gvir, il ministro estremista della Sicurezza nazionale, che ha quasi insultato il premier per aver dato l’ok a una operazione «moscia», dopo che Israele una settimana fa aveva dovuto fronteggiare oltre 300 tra droni e missili di Teheran lanciati perfino contro l’inviolabile Gerusalemme. Niente da queste parti è fine a sé stesso. E anche «operazione pistacchio», non è detto che sia una calunnia. Non c’è parola, decisione, silenzio, che non sia il frutto di una concatenazione di fatti, rancori, promesse e tradimenti da lavare nel sangue altrui. La risposta di Tel Aviv alla rappresaglia di Teheran, che aveva annunciato una pioggia di fuoco su Israele dopo che sette ufficiali dei Pasdaran iraniani erano stati uccisi il primo aprile nell’attacco israeliano all’ambasciata di Teheran in Siria, è avvenuta nel giorno del compleanno della “guida suprema”, l’ayatollah Khamenei. Gli iraniani se lo aspettavano e per adesso sembrano disposti a soprassedere.
«Un’azione ridicola», l’ha definita Nezameddin Mousavi, portavoce del Consiglio di presidenza del Parlamento: «Israele ha accettato la sconfitta e – ha aggiunto – si compiace di queste mosse infruttuose». Toni che non preludono a un nuovo raid diretto entro i confini dello stato ebraico. Non è un caso che Tel Aviv abbia usato il guanto di velluto sull’Iran e il pugno di ferro su Siria e Libano, dove sono state bersagliate le postazioni delle milizie filo-iraniane, al contempo uccidendo una mezza dozzina di miliziani palestinesi in Cisgiordania. Qui le brigate al-Qassam, il braccio armato di Hamas, si sono rifatte vive al di fuori di Gaza proprio quando le forze di occupazione dovevano tenere gli occhi al cielo.
Il raid definito da alcune fonti militari come «mirato e limitato» è scattato tra le 4 e le 5 del mattino. Fonti di Washington hanno confermato di essere stati avvertite dell’operazione poco prima, respingendo ogni ipotesi di un coinvolgimento Usa, da cui non è arrivato «nessun avvallo». Già a metà giornata tre funzionari iraniani avevano affermato che l’attacco aveva colpito una base militare, mentre da Tel Aviv le informazioni arrivavano con il contagocce.
Il messaggio è stato chiaro. Se Teheran può raggiungere con i suoi ordigni il territorio israeliano, l’esercito con la Stella di David può centrare obiettivi in Iran. Il distretto di Ishafan, a 1.500 chilometri in linea d’aria da Gerusalemme, è sede di strategici siti nucleari, di una grande base aerea, fabbriche e depositi militari. Si trova nel centro dell’Iran, a oltre 500 chilometri dal confine con l’Iraq. In altre parole, gli ordigni israeliani (non è ancora stato chiarito se piccoli droni o missili lanciati dai caccia) hanno viaggiato per mezzo migliaio di chilometri sopra il suolo iraniano venendo intercettati solo quand’erano sull’obiettivo. Fonti non confermate dicono che è stato colpito l’impianto radar, accecando per giorni i sistemi di difesa. Nell’area di Zedenjan, a sudest del capoluogo regionale, si trovano i siti per la conversione dell’uranio, che viene arricchito negli impianti di Natanz, nella stessa provincia. Nella centrale di Ishafan, costruita a partire dal 1999, operano tre piccoli reattori di ricerca nucleare forniti dai cinesi. Lì viene gestita la produzione di combustibile per il programma nucleare civile dell’Iran. Sempre a Isfahan è dislocata la flotta dei caccia F-14 Tomcat di fabbricazione americana, acquistati prima della rivoluzione islamica del 1979 e ancora spendibili nei teatri di crisi.
Secondo Fars News, media semiufficiale iraniano, almeno una esplosione è stata segnalata anche a Tabriz, nell’Iran nord-occidentale, dove sono entrati in azione i cannoni della contraerea contro un «oggetto volante sospetto». Il presidente iraniano Raisi non ha neanche menzionato il raid. «L’Iran ha mostrato a Israele la propria forza», ha detto riferendosi alla rappresaglia di sabato scorso, mentre i media di regime ripetono la cantilena dei 7 missili ipersonici iraniani che hanno colpito Israele bucando il sistema di protezione aerea della base militare Nevatim, dove sono protetti dai bunker gli aerei da combattimento F-35.
Minimizzare fa comodo a tutti. Anche a Israele, che così può rassicurare gli alleati che chiedevano tuttalpiù un’operazione mirata che scongiurasse l’escalation. Conviene agli ayatollah, che possono dire di aver colpito duro una settimana fa e di aver subito ieri un po’ di solletico. E fa gli interessi di Biden, che in piena campagna presidenziale può rivendicare d’essere riuscito ad addomesticare Netanyahu. Poche ore prima del raid scattato sul filo dell’alba, Biden era stato accusato di avere sacrificato il destino di Rafah con il via libera all’operazione israeliana contro l’Iran. La Casa Bianca aveva smentito con sdegno.
Dalle parti di Gerusalemme poco è cambiato. Il forum delle famiglie degli ostaggi non vuole farsi distrarre dalle operazioni oltreconfine, quando dei loro cari non si sa nulla: 130 sono ancora prigionieri nella Striscia, ma a decine potrebbero essere già morti. Perciò ieri hanno inscenato un blocco sull’autostrada per Tel Aviv.
A preoccupare sono anche le ricadute economiche del conflitto. Solo a Dubai da martedì sono stati cancellati 1.478. E al momento non c’è la coda per accaparrarsi i biglietti per il Medio Oriente messi a disposizione dei pochi voli lasciati aperti. Segno che aver fatto tracimare il conflitto attraverso i cieli per migliaia di chilometri danneggerà l’intero quadrante. In serata il segretario di Stato Usa Antony Blinken ha ribadito che Washington non ha avuto alcun ruolo nella risposta israeliana contro l’Iran, insistendo sul suo impegno «per porre fine al conflitto a Gaza, fornire maggiori aiuti umanitari e garantire il rilascio degli ostaggi». Come dire che cercare l’escalation, non cambia di una virgola il destino dei civili nella Striscia né le speranze per gli ostaggi israeliani. «Ammesso che i piani di Netanyahu – insiste l’ex agente del Mossad – siano mai stati quelli di voler far tornare a casa i prigionieri e non quello di approfittare anche della minaccia iraniana per restare al potere».