venerdì 3 ottobre 2014
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«Spiegare. Una, due, cento volte. Senza stancarsi. Può sembrare banale, ma è fondamentale se vogliamo contrastare l’epidemia. Nei villaggi più lontani dalla capitale la gente non ha idea di che cosa sia ebola, di che cosa provochi il contagio e che cosa no». Negli ultimi giorni, monsignor Robert Vitillo, delegato all’Onu di Ginevra per la Caritas Internationalis, ha girato freneticamente l’interno della Liberia in compagnia del dottor Senga, per illustrare le tecniche di prevenzione di base e distribuire kit di acqua clorata e guanti. Sono queste ultime le armi rudimentali ma efficaci per uccidere il virus, tanto resistente all’interno del corpo quanto fragile fuori. Pochi, però, le impiegano. Alla cronica mancanza di mezzi, si unisce una forte “resistenza culturale”. Le comunità sono spaventate. E non sanno come reagire di fronte alla minaccia. Per questo, è vitale sensibilizzarle. «La spiegazione è ancora più efficace quando a farla è un sopravvissuto, come il dottor Senga, medico congolese da quattro anni in Liberia. È stato contagiato a luglio ed è guarito dopo quaranta giorni di isolamento – racconta ancora ad Avvenire  monsignor Vitillo –. Ora, come tutti i reduci, è immune ad ebola. Dunque può aiutare i malati e soprattutto è un testimone credibile agli occhi delle comunità per spiegare i veri rischi». In assenza di un’informazione corretta, infatti, pullulano dicerie e leggende. C’è chi accoglie a sassate gli operatori che distribuiscono i kit perché li considera “untori”. O chi espelle superstiti e orfani perché ritenuti “infetti”. Le norme base, invece, di lavare sempre le mani con acqua e cloro vengono ignorate. Da qui la mobilitazione della Chiesa liberiana – come di quelle del resto dell’Africa occidentale – per sensibilizzare gli abitanti, specie quelli delle zone più remote. «Le parrocchie tengono mini corsi sull’epidemia e inviano catechisti e volontari “porta a porta”. I sacerdoti svolgono un’azione di sensibilizzazione costante sui fedeli. Si dovrebbe fare ancora di più ma le risorse sono poche», conclude Vitillo.  Per questo Caritas Internationalis sta valutando di lanciare un appello straordinario a tutte le Caritas mondiali per trovare i mezzi da impiegare nella sensibilizazzione e prevenzione, nell’accompagnamento psicologico dei familiari dei malati, nell’assistenza degli orfani, che superano già quota 3.700 secondo Unicef. Drammi nel dramma dell’epidemia di ebola più grave della storia. «È il peggior disastro cui ho mai assistito», ha detto Anthony Banbury, capo della missione Onu in Africa occidentale. Già oltre 3.300 persone sono morte, più di 7mila sono state contagiate. Tra loro anche un pediatra ugandese dello staff di Emergency impegnato a Lakka, in Sierra Leone, secondo quanto rivelato ieri dalla Ong. Se non si agisce in fretta – ha dichiarato il delegato delle Nazioni Unite –, il virus potrebbe mutare e diffondersi per via aerea. Un’ipotesi «da incubo», ha sottolineato Banbury, che al momento «rimane improbabile ma non può essere esclusa».

L’obiettivo è rallentare il ritmo del contagio. Il che non è facile: i sistemi sanitari nazionali sono ormai al collasso. A Monrovia, dopo la morte per l’epidemia di nove tra medici e infermieri, ha dovuto chiudere perfino l’ospedale Saint Joseph, gestito dai Fatebenefratelli, uno dei più moderni ed efficienti della regione. Ora, il governo liberiano sta cercando di riaprirlo ma non è facile data l’esiguità dei fondi disponibili. Che rischiano di aumentare ulteriormente. Ebola sta mandando in rovina l’economia, già fragile e prevalentemente agricola, dell’Africa occidentale. Tra contagio e quarantena, molti contadini che non hanno potuto seminare in questi mesi. Le restrizioni agli spostamenti di persone e merci hanno, inoltre, creato una penuria di alimenti che qualcuno chiama già «carestia». E i prezzi dei prodotti disponibili crescono vertiginosamente. Entro fine anno, l’inflazione – prevedono gli analisti – supererà il 10 per cento. 

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