Quota trenta si avvicina. Con l’ingresso nell’Unione Europea della Croazia, il prossimo 1° luglio, i membri diventano ventotto. E alla porta c’è la fila per entrare. Cinque Paesi hanno acquisito lo status di candidato ufficiale, mentre altri tre sono definiti dall’Unione “candidati potenziali”. Il processo di adesione è lungo e complesso; agli aspiranti viene richiesto il rispetto di una lunga lista di requisiti sociali ed economici, ma in realtà la decisione è politica. Lo dimostra l’eterno limbo della Turchia: associata alla Cee fin dal 1963, ha presentato domanda di adesione nel 1987, accolta nel 1999; ci sono voluti altri sei anni, fino al 2005, per avviare i negoziati. Che da tempo sono in stallo: il dubbio è sull’opportunità di accettare un Paese musulmano – un grande Paese, con oltre settanta milioni di abitanti – nell’Unione. E i disordini delle ultime settimane non hanno certo contribuito a fare chiarezza: i negoziati sono slittati a ottobre.Con l’ingresso della Croazia fa invece un ulteriore passo in avanti l’inclusione dell’intera area balcanica, che in prospettiva appare scontata. Candidati ufficiali sono Macedonia, Montenegro e Serbia, che assieme contano appena dieci milioni di abitanti (a fronte dell’oltre mezzo miliardo della Ue).
Per Montenegro e Macedonia si tratta solo di stabilire i tempi: il primo ha visto avviare i negoziati nel 2012, mentre la Macedonia è ancora al palo, nonostante la luce verde accesa dalla Commissione europea fin dal 2009. A frenare Skopje è la Grecia, che ne fa una questione di nome: Atene non accetta che quell’evocativo “Macedonia”, che richiama il tanto glorioso quanto remoto passato imperiale di Alessandro Magno, finisca definitivamente associato a una nazione slava. Più complessa la situazione serba, a lungo bloccata da due ostacoli: la questione dei criminali di guerra degli anni Novanta, da un lato, e quella kosovara, dall’altro. Nel 2008 l’arresto di Radovan Karadzic “fruttò” l’accettazione della domanda di adesione; quella di Ratko Mladic e di Goran Hadžic, nel 2011, la “promozione” allo status di Paese candidato.Ora tocca al nodo kosovaro: e anche qui la Serbia percorre, con cautela perché deve fare i conti con un’opinione pubblica fortemente nazionalista, la strada dell’accomodamento. Decisivi sono stati gli accordi dell’aprile scorso, quando serbi e kosovari hanno compiuto i primi, sostanziali passi verso il reciproco riconoscimento. A stretto giro di posta è arrivata la “raccomandazione” della Commissione al Consiglio europeo, affinché venisse stabilita la data di inizio dei negoziati per l’adesione serba. L’altro ieri, infine, il via libera per i colloqui, che dovranno cominciare, al più tardi, entro gennaio.
Se l’ultimo Paese candidato ufficiale, l’Islanda, sembra essere colto da ripensamenti, i “candidati potenziali” Albania, Bosnia-Erzegovina e Kosovo sono al lavoro per raggiungere la stabilità politico-economica necessaria.
Alla porta dell’Unione la fila continua a premere; hanno manifestato interesse anche Moldavia, Ucraina e Georgia, ma qui resta pesante l’ipoteca della Russia di Putin, restia a cedere ulteriori spazi in quella che considera la sua sfera d’influenza. Dopo lo slancio degli anni Novanta, fino all’arrivo dell’euro (che continua a crescere: la Commissione ha appena dato il via libera alla Lettonia), il processo di unificazione appare inceppato. Invece cammina, quasi vivesse di vita propria o di una necessità storica che trascende le scelte politiche di questo o quello Stato membro, guidate da interessi di bottega a corto raggio. Forse perché per l’Unione vale quello che Massimo D’Azeglio, all’indomani della Prima guerra d’indipendenza, rispondeva a chi lamentava l’immagine miseranda offerta dal litigioso Parlamento sabaudo, l’unico d’Italia: «A noi che lo guardiamo da vicino offre uno spettacolo mortificante. Ma per tutti gli altri, che lo vedono da lontano, è il simbolo e il documento di un regime libero e moderno».