Il venerdì pomeriggio decine e decine di persone sfilano per le strade di Bilbao. Anziani dall’aria stanca ma fiera, ragazzi con la kefiah, donne coi bambini, marciano compatti tenendo in mano le foto dei loro familiari. « Li vogliamo vivi e a casa » , ripetono ossessivamente i manifestanti. Dai marciapiedi intorno, la gente spesso si ferma, qualcuno applaude, altri gridano « libertà » . Il rito, incomprensibile per chi non vive nei Paesi Baschi, si ripete tutte le settimane. « Protestano per il ritorno in Euskadi – nome basco per indicare questo territorio aspro e montuoso, incastonato tra Spagna e Francia – dei nostri prigionieri politici » , spiegano a chi chiede informazioni. I «prigionieri politici » sono membri dell’organizzazione terrorista Eta (Euskadi Ta Askatasuna) che combatte per l’indipendenza della regione. Dal 1959, quando è stato fondato, il gruppo si è macchiato di quasi 850 omicidi e un’infinità di attentati. La maggior parte dei «prigionieri politici» si trova, dunque, in carcere per reati di sangue. Eppure una parte della società basca li considera patrioti. L’altra, la maggioranza, è costretta a cedere al ricatto della violenza di Eta. E ad abbassare la testa. Perché schierarsi contro la furia separatista può costare la vita, di se stessi o dei propri familiari. « L’appoggio reale di cui gode tra i cittadini è scarso – spiega Jose Rodriguez Jimenez, storico dell’Università Rey Juan Carlos di Madrid –. La minaccia delle armi consente, però, ai terroristi di tenere in ostaggio la società basca. E mentre l’ala militare ottiene il silenzio col terrore, il braccio politico dell’organizzazione mobilita le piazze in suo favore. Si tratta, comunque, di un sostegno imposto » . La prova di ciò, secondo l’esperto, sarebbero le intimidazioni, con lettere e telefonate anonime, a cui gli indipendentisti devono ricorrere per riscuotere la cosiddetta « tassa rivoluzionaria » : una sorta di « pizzo » , estorto agli imprenditori locali, che rappresenta, insieme ai sequestri, la loro principale fonte di finanziamento. Le cifre pretese variano tra i 70mila e i 150mila euro e portano nelle tasche del gruppo, secondo la polizia francese, circa 900mila euro al giorno. Un fiume di soldi che la banda investe in arsenali e propaganda. Questa capacità di alternare ricatto e mobilitazione spiega la sopravvivenza di Eta, che ha resistito alle persecuzioni franchiste e alle varie offensive lanciate dai successivi governi democratici di Madrid. L’ultima, avviata da Zapatero dopo la rottura del negoziato nel dicembre 2006, ha fortemente indebolito l’organizzazione. L’anno scorso si è chiuso con 670 etarras ( esponenti di Eta) dietro le sbarre. È il più alto numero in mezzo secolo. Le recenti operazioni congiunte con le forze di sicurezza francesi hanno, inoltre, consentito di decapitare i vertici dell’organizzazione. A maggio è stato catturato Francisco Javier Lopez Peña, detto ' Thierry', numero uno della banda. Il 17 novembre è toccato a Mikel Garokoitz Aspiazu, alias ' Txeroki', capo dell’ala militare di Eta. Il successore, Aitzol Ariondo, è durato appena qualche settimana: la polizia lo ha arrestato l’ 8 dicembre in Francia. Colpi durissimi per l’organizzazione. Che, però, resiste. E contrattacca. Due giorni fa, la minaccia contro i responsabili del progetto dell’alta velocità ferroviaria nei Paesi Baschi inviata a un quotidiano locale. Il 3 dicembre due sicari di Eta hanno ucciso per la quarta volta nel 2008. A cadere è stato l’anziano imprenditore Ignacio Uria, ' colpevole' di partecipare alla costruzione della linea ad alta velocità nella regione, progetto osteggiato dagli indipendentisti. Un bersaglio facile, perché l’uomo girava senza scorta. « Gli ultimi attentati di Eta – afferma Rodrguez Jimenez – hanno riguardato obiettivi di basso profilo o indiscrimati. Questo sarebbe segno della attuale debolezza dell’organizzazione». Una sorta di « terrore al risparmio » : il gruppo realizza attacchi a bassa intensità, in modo da far sentire la sua presenza senza dover investire troppe risorse, dato che queste sarebbero ridotte all’osso. Alla decapitazione dei comandi militari si aggungerebbe la stanchezza della base. Non a caso, per aumentare i consensi, l’organizzazione si è impegnata in una serie di battaglie estranee al separtismo, prima fra tutte quella ecologista contro l’alta velocità. Un modo, già sperimentato con la lotta antinucleare negli anni Ottanta, per fagocitare i movimenti sociali alternativi e acquisirne il controllo. L’obiettivo di dare nuovo ossigeno a una banda in affanno è però riuscito solo in parte. « Anche buona parte dei sostenitori di Eta si rende conto che la lotta armata non ha futuro – dice Joseba Zulaika, docente del Centro di Studi Baschi dell’Università di Princeton – e finisce per nuocere alla causa del nazionalismo». Almeno di quello democratico, ' prigioniero' dei terroristi'. Il rapporto col Partito nazionalista basco ( Pnv), che governa la regione da vent’anni, è uno dei capitoli più controversi della storia di Eta. « Parte del Pnv è ambigua verso i terroristi – sostiene Rodriguez Jimenez –. Perché, in fondo, la violenza di Eta ha reso diverse volte in termini politici nella negoziazione con Madrid per ottenere maggiore autonomia. Il governo dovrebbe essere più energico e non cedere a questa logica ricattatoria». «Il problema è un altro – replica Zulaika, che si colloca su una prospettiva opposta –: la maggior parte dei baschi non vuole l’indipendenza ma una rinegoziazione delle regole che premi, anche dal punto di vista simbolico, le loro istanze di autoderminazione. Il braccio di ferro tra terroristi e Zapatero alimenta le commponenti più radicali della società basca. La scelta di mettere fuori legge i partiti filo-Eta ha lasciato senza rappresentanza il 10- 15 per cento dei cittadini. Che considerano legittimo farsi ascoltare con altri mezzi». Una rabbia che sembra prolungare all’infinito il conflitto. « L’unica soluzione sarebbe che l’ala politica del gruppo riuscisse a prendere il comando e imponesse al braccio militare di abbandonare le armi e di negoziare – conclude Zulaika –. Ma in Eta, a differenza di Ira, non c’è un Gerry Adams che abbia la forza per farlo».