martedì 30 dicembre 2014
​Reportage: festività «blindate» nel timore di raid dei qaedisti. Il vescovo: «La nostra vita sta cambiando». Messi alla prova secoli di convivenza pacifica tra musulmani e cristiani. (Claudio Monici)
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Si pronuncia al-Shabaab, e la storia corre all’immagine di una “gioventù” islamista radicale e insurrezionalista attiva in Somalia, nella sfera d’influenza del terrorismo di al-Qaeda.  «Chi ha comandato e condotto gli attacchi mortali di novembre e dicembre in Kenya e brutalmente assassinato 64 keniani nella Contea di Mandera, nel nord-est, dopo averli selezionati come cristiani, sono un maestro e un ingegnere agronomo, keniani », rivela il vice-capo del Dipartimento criminale di Nairobi, Gideon Kamilu. «A comandare quella banda di assassini erano i ricercati Mohamed Kuno, originario di Garissa, un’ex insegnante di una madrassa islamica, e Ahmed Imam Ali, originario di Nairobi dove si è laureato all’Università Jomo Kenyatta». Sempre secondo il vice-capo Kamilu, Kuno e Iman, «sono i diretti responsabili delle operazioni di terrorismo in Kenya». Sulla faglia di Mandera, Garissa, Wajir e fin sulla Costa dell’arcipelago di Lamu, qualche chilometro più a nord della nota località turistica di Malindi e del porto di Mombasa.  Armi, traffico di droga, contrabbando, banditismo. Ma quello che tiene alta la guardia a Nairobi è il timore di un radicalizzarsi delle infiltrazioni dell’islamismo combattente. Il nordest del Kenya che si congiunge con la Somalia, è terra di povertà, predoni e campi profughi. Un territorio arido, dove le distanze tra un insediamento umano e l’altro sono enormi, attraversato da popolazioni nomadi, nel mezzo di una vasta landa di rovi, sabbia e pochissimi pozzi d’acqua salmastra. Una linea verticale che, per 680 chilometri di sabbia e niente, fa confine geografico.  Un Kenya impossibile da tenere sotto controllo. Soprattutto quando, pur essendo sotto giurisdizione di Nairobi, è una terra abitata da una popolazione che appartiene al ceppo somalo, che parla somalo, e che proprio dalla Contea di Garissa, la città del capo banda Kuno, fin quasi alle porte nord di Nairobi, è considerata una legittima propaggine della “Grande Somalia”.  Non è prudente attardarsi oltre il tramonto, sulle strade della costa. Già non è consigliato farlo nelle grandi città, Nairobi o Mombasa. Senza volere esagerare, aggressioni, rapine finite nel sangue, violenze sessuali, sono un po’ il menù riportato dal bollettino settimanale degli “alert” di Inso, organizzazione che si occupa di sicurezza per gli espatriati che operano in Kenya.  «Il messaggio è evidente – spiega un addetto della sicurezza ad Avvenire –: non esiste un luogo, un posto dove dirsi sicuri al cento per cento. Finisci di lavorare, esci dall’ufficio e torni a casa in auto e sulla strada capita di incrociare una gang che ti blocca pistola alla mano. È consigliato fermarsi, e consegnare quello che si ha. Questo è il Kenya bruciato dalla criminalità comune. Quello che emerge ora, oltre alla cronaca nera, è il terrorismo che ferma gli autobus per ammazzare chi non è un musulmano». Nell’arcipelago di Lamu alle 18 entra in vigore il coprifuoco, e poi c’è l’esercito che, quando interviene al di là del confine, non usa i guanti di velluto.  «La nostra vita sta cambiando. Il coprifuoco è solo la conferma di una situazione di pericolo reale». Di ritorno da un “safari” nell’est, nella sua diocesi, un viaggio dentro il cuore nero dove si nasconde il terrore islamista, tra le isole di Lamu e Manda, per «constatare di persona che cosa sta accadendo e come vive la mia piccola comunità cattolica», monsignor Manuel Barbàra, vescovo di Malindi, lancia il suo “alert” e racconta di come anche il coprifuoco, in una certa misura, stia mettendo alla prova quella che è stata per secoli una lunghissima e pacifica convivenza tra africani musulmani e africani cristiani. Circa 40 mila i cattolici (a Malindi, 1.200 famiglie stranierie, quasi tutti italiani, molti i pensionati, ndr), su una popolazione di 530mila abitanti. Musulmani, i più, ma anche gruppi etnici come i ghiriama o i pokomo, che praticano religioni tradizionali, e che con l’islam, che qui portò la schiavitù, non vanno di sintonia.  «I musulmani sono per lo più commercianti e si lamentano per il coprifuoco. Dicono che fa perdere guadagni. I cristiani, quelli che vivono sulla terraferma, hanno paura che il coprifuoco venga tolto. In questi giorni di festa la gente, che non è sciocca, è ben consapevole che se qualcuno vuole fare qualcosa di “forte” potrebbe approfittarne. Quale migliore occasione se non in questi giorni», si domanda monsignor Barbàra, 65 anni, da 25 in Kenya.  Gli attacchi degli al-shabaab, sono ben organizzati e portati con notevole potenza armata. Il reclutamento giovanile in Kenya, non è mistero, e registra sempre più favore: in diverse moschee di Mombasa, trasformate in madrasse, con centinaia di giovani radunati per “approfondire” il Corano, la polizia ha scoperto armi e testi clandestini inneggianti alla violenza religiosa.  Avverte infatti monsignor Barbàra: «Al-Shabaab recluta i giovani promettendo loro non solo soldi, ma anche qualcosa d’altro che evidentemente richiama interesse. È un fenomeno che non riesco a capire. Perché proprio adesso che Il Kenya sta vivendo un suo momento di successo, di trasformazione economica, di cambiamenti. Siamo un’Africa che cammina. Perché questi giovani sono attratti da chi incita a uccidere nel nome di una religione?».  La Nigeria, i terroristi di Boko Haram sono lontani, ma l’impronta è la stessa. «La strategia possiamo paragonarla a quella nigeriana, ma per fortuna da noi gli episodi di sangue restano ancora isolati. No non è come la Nigeria. Per il momento. Ho solo una forte preoccupazione – aggiunge ancora il vescovo di Malindi –: a violenza si risponde con la violenza. Dio non voglia che chi agisce nell’ombra di quella sigla non cerchi la guerra civile. In passato, i leader islamici hanno commesso l’errore di non denunciare e di non impedire che le moschee, in particolare a Mombasa, divenissero delle scuole di violenza. Ma anche loro, oggi, stanno pagando il conto».  È stato un Natale celebrato all’insegna dell’insicurezza e della paura per i cristiani della costa keniana. «In molte chiese, le funzioni religiose della sera non si tengono più». A Malindi la santa Messa della mezzanotte è stata celebrata nella cattedrale dedicata a sant’Antonio da Padova.  «Ma certo questo Natale non è stato come gli altri. La gioia c’è, ma nell’aria si sente quella cappa di apprensione che ci fa vivere con l’ansia. Dove colpirano? Quando? Come? Sono domande che ci assillano. Di turisti non se ne vedono quasi più. La felicità che ci portavano in questo periodo con le loro vacanze, significava anche lavoro assicurato per la gente di qua. Questo vuoto fa paura». Perché è il silenzio dell’ambiente stesso che ti fa più paura. «Portate la nostra voce nel mondo – chiede il vescovo di Malindi –. Così almeno altra gente conoscerà la nostra situazione. Non è grave come quella in Iraq, in Siria o in Nigeria. Ma il mondo deve sapere».
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